Hanno un'anima


Non ci crederete ma è così.              
Sono ormai ovunque tra noi ed ognuno di loro è un piccolo mondo, un piccolo popolo di omini grassi e magri che tentiamo, inutilmente, di dominare.
Controllano la nostra vita in ogni secondo della giornata, ed anche della notte, siamo divenuti totalmente e morbosamente loro dipendenti.
È triste pensare che esseri razionali, evoluti, intellettuali e pragmatici siano ridotti a farsi dominare da uno sterminato esercito di piccoli nani.
Che disdetta, aver affidato la nostra vita ad un esercito di zero e uno, i soldatini grassi e magri, che ora ci comandano a bacchetta.
Non capite? Fatevi un giro sulla rete, sul net (internet ma quale rete, ma quale net): un ammasso di soldatini peggio che gli atomi subito dopo il big-bang.
Andate a rinfrescarvi o a conoscere il concetto della "codifica binaria" e vedete a cosa serve, vedete da dove siamo partiti e dove arriveremo dicendo che sette è fatto da tre magri e otto da tre grassi e un magro.
All'inizio era facile, mettevi i soldati in fila e quelli stavano li fermi, poi li facevi scontrare ed il risultato saltava fuori come previsto,
magari si scontravano un milione di volte in un secondo: comodo!! Ti calcolavano anche lo stipendio a fine mese.
Poi le cose si sono complicate, sono arrivate le icone e le finestre ed i soldati si sono nascosti: non li vedi più e non sai cosa stanno facendo (clessidra, rotellina arcobaleno).
E qui ti voglio!! Tu credi che loro siano sempre lì, fedeli al tuo servizio, e invece no! si sono organizzati e fanno più i cavoli loro che i tuoi.
Tu vuoi una cosa e loro ne fanno un'altra, tu credi di aver ragione ed invece hanno sempre ragione loro; "se non ti sta bene vai pure al parco a prendere un po’ d'aria,
tanto noi ci riorganizziamo da soli e scarichiamo pure gli aggiornamenti!"
Loro HANNOUNANIMA!!!
Non è forse vero che tutte le cose più diventano complicate e più assumono un'identità propria? Che interagisce con se stessa e si sviluppa all'infinito.
Credete che i vostri computer, i vostri tablet, i vostri smart phone e quant'altro siano al vostro servizio?
Niente di più falso!! Siete voi al servizio loro!! Vi hanno imbozzolato nella rete, voi e pure i loro creatori (ai quali è già sfuggita di mano la situazione).
Siete nel bozzolo, larve che suggono la linfa dall'enorme radice: la root, (ce li avete i permessi? avete rutato il dispositivo?).
Direte :- ma perché questo dice voi, voi, voi e non dice noi, noi, noi; forse che lui è indenne? immacolato? vaccinato?
No, niente di ciò, io ho smontato l'icona, ho guardato cosa c'è dietro, ho portato alla luce i soldatini e li costringo a lavorare solo per me.
Attenti fratelli, gli omini grassi e magri li abbiamo creati noi, e a noi devono obbedire.
Al centro di tutto ci sta sempre l'uomo non la macchina: usiamo la testa e cerchiamo di essere umanisti, se pur tecnologici.
Buon divertimento.
 
… Gian Pietro Manfredi …

MAI FIDARSI DI UN AMORE CHE NON TI SPETTINA

(Rolando Kattan “ANIMALE NON IDENTIFICATO”
traduzione di Piera Mattei)

Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli
 

Animale non identificato è un libro del 2014, pubblicato dalla Gattomerlino nella sua collana SerieBlu, di un autore che riesce a sorprendere per la sua freschezza poetica e la sua riflessività. Rolando Kattan è nato a Tegucigalpa, in Honduras, nel 1979, ha radici messicane per parte di madre e ebreo-sefardite e palestinesi per parte di padre; questo elemento contribuisce in maniera importante ad una produzione di versi dal respiro ampio, scaturiti dalla lettura sistematica di autori come Montale, Pavese, Campana, Carducci… E ancora Pessoa, Vallejo o gli Haiku giapponesi. Il volumetto è arricchito dal testo a fronte, in traduzione di Piera Mattei, e da una interessantissima ed illuminante intervista all’autore, sempre realizzata dalla Mattei, dal titolo impegnativo e lungimirante “La poesia come utopia”.
 
Abbiamo evidentemente a che fare con una poesia che si serve di immagini nette e forti, che si disegnano nitide e incalzanti al fine di esprimere il pensiero portante dell’autore, che è un contagioso animatore culturale, impegnato nella diffusione popolare della poesia, come strumento di pacificazione e di sviluppo sociale. Dichiara Kattan, nell’intervista: “Noi del Colectivo abbiamo portato i libri e la lettura nei mercati, in villaggi sperduti, nelle carceri, negli ospedali”.
Animale non identificato comprende le poesie della sua terza raccolta in lingua spagnola, la prima in Italiano. È poesia che trasuda amore per tutto ciò che si contraddistingua come “ricerca”, che cita infatti autori dell’antichità, filosofi, scienziati: Michelangelo e Leonardo si accostano a Newton ed Einstein, in una sorta di collezionismo della ricerca, che come detto, non si limita alla scienza, tirando in ballo Gόngora, Quevedo, Cervantes e Shakespeare, oppure filosofi come Eraclito, Socrate e Platone. Scrive, con acume, la Mattei: “la definirei anche una poesia edenica e presocratica” che tende sempre all’eternità (“un poema puede llegar a ser eterno / así parece”). Si nutre di citazioni e di riferimenti letterari, sempre piuttosto espliciti (“Mi cabeza / también / pudo ser enterrada en Spoon River / pudo ser asfixiada / en algun viejo libro / pudo ser la cabeza de Yorik / pudo ser cabeza / o pudo / no ser nada”).
Kattan è poeta di evidente derivazione Montaliana o Eliotiana, dove l’emozione nasce spesso da una sorta di “correlativo oggettivo”: il Bonsai battuto dai venti che si crede l’unico albero sulla Terra, l’odore del pane che “se horneaba sobre el noble fuego de la leña”, la “bella scrittura” che accompagnava formalmente il dono di un ritratto fotografico del nonno. Ma l’elemento costantemente presente è l’acqua: perché è oltremodo vero quanto sostiene la Mattei: “in questa poesia filtra e gocciola acqua”; è un sentore di umidità che si infiltra tra le rocce, che fa nascere i fiori, che fa scendere il pianto… È vitalizzante come la parola. Suggestiva come nella splendida “Lluvia de escaleras”: “Una voz que gotea me dice: / no costruyas castillos en el aire”, e poco più in basso insiste “Una voz que gotea: / no costruyas castillos en el aire”, per un intermezzo in Inglese, di sapore Montaliano e citazione di Bernard Shaw (“if you have built castles in the air… / Now put the foundations under them”), che prelude alla chiusa che va perfettamente a bersaglio (“la gota persiste / pero afuera comienza / a caer una lluvia de escaleras”). È acqua che si fa voce di tutti i poeti defunti, dall’antico Omero al moderno Basho: una sorta di rassicurante liquido amniotico, un liquido capace di dare vita, come la poesia di un libro scritto in mandarino (“las palabras caen como una lluvia sobre sus manos / y sus manos abiertas se llenan de agua / como las manos que entran a los ríos / el hombre a mi lado bebe agua de un libro”).
È forse nel piglio ironico e deciso, però, che dobbiamo riconoscere l’elemento portante della poesia di Kattan, capace di un piccolo capolavoro con la sua “Tratado sobre el cabello”, che suona come un vero “inno al caos”, poeticissimo (“y los amantes que sobre todas las cosas se despeinan / cuando se besan y se aman / por eso les digo: / hay que desconfiar de un amor que no te despeina”) e spiazzante (“en la historia reciente / Albert Einstein fue el más despeinado del siglo XX / y Adolfo Hitler por supuesto / el de los cabellos más ordenados”); oppure, come non citare “Animal no identificado”, che dà il titolo alla raccolta e passa in rassegna tutti quegli animali, insoliti o strani, Pegasi o Centauri, che non trovarono spazio sull’Arca di Noè, per poi approdare all’animale, “non identificato” appunto, che pur avendo trovato posto sull’Arca, ancora oggi non riesce ad essere conosciuto a fondo: “Pero de todos los animales que entraron / no reconozco al animal que recorre mi cuerpo”.
Abbiamo a che fare con una poesia sempre sintonizzata sul “divenire” (“aprende de las floras que nacen en las tumbas olvidadas”) e sul rifiuto assoluto dell’ “empasse” e della “fissità” (“no te entretengas más porque te volverás fotografía”). L’immagine ricorrente e vitalissima dei “fiori sulle tombe” è suggestiva e coraggiosa, perché non si tratta mai di fiori recisi, bensì di fiori spontanei che nascono sulle tombe dimenticate… Hanno quel sapore speciale, di libertà e di creatività, che Kattan attribuisce alla Poesia e all’Amore. Emblematica e toccante “Acto textual”: “ten a la mano siempre los libros poesía / lejos de los otros / aparte / en donde no los olvides / en donde preda verlos siempre // aunque no los leas o los hayas abandonado / ten los libros de poesía cerca de ti / al lado de tu cama / de cabecera de cama / o de cama / nunca más lejos / siempre en donde los sueños succede / en donde sierra sin miedo los ojos // cerca de donde haces el amor lo más cerca que preda / pues es allí en donde deben estar”.
Poesia e Amore, dunque, come energia creativa… E dimensione di poeta assume, in tale visione del mondo, anche quell’artigiano britannico, Peter Bellerby, che fabbrica ancora mappamondi a mano e al quale Kattan dedica versi preziosi, come originalissimo artista del “fare”. “Un poema (…) / puede llegar a ser más longevo que una piedra”, oppure “un poema puede llegar a ser eterno / así parece”. Poesia è soprattutto il potere fecondante della parola: “hago valer mi derecho de empezar un Edén”, recita Kattan, per poi chiudere il cerchio, nell’intimità del silenzio (“es posible el silencio // sentir el barro húmedo del cuerpo / y dejarse fecundar al fin por el poema”). Il discorso più attento è sul Tempo, dove si denuncia come regressione il millantato progresso, nel paradosso de “la ciudad” que “se ha vuelto vieja / haciéndose más nueva”; infatti “los años se miden / por los pisane que destruimos”, e dove c’era una scuola troviamo oggi un centro commerciale, nel cortile dove c’era un’acacia troviamo adesso un distributore automatico. L’uomo si illude “padrone del tempo”, nell’ironico simbolo di Kiribati che, dal 2011, è passato da primo a ultimo luogo del pianeta. “El tiempo corre y el arte lo detiene”, come solo il marmo bianco del David di Michelangelo riesce a fare. Curioso e spiazzante, Kattan, anche quando regala immagini e letture ironiche di un orologio fermo alle sei e trenta.
Profondo e malinconicamente reale, invece, nei versi di “Spoon River Anthology” (“los que van / tienen mucho que decimos / pero muertos / son memore confidentes”), dove nella dialettica vita-morte il dialogo si amplifica soltanto dopo l’estremo passaggio; oppure in “Nosotros muertos”, dove sembra di rivivere, per certi aspetti, alcuni versi del Sereni di “Diario d’Algeria” (“Non sanno di essere morti / i morti come noi”), quando attraversiamo con Kattan una quotidianità svuotata da ogni idea di vita: “los muertos desconocen / su condiciόn de nuerto / visitan officina / viajan en autobuses / y se sientan frente al televisor / en grupos de pequeños cementerios”. È tranciante nei suoi versi il poeta honduregno: “no se puede fingir que es octubre cuando es enero”. Proprio in questa rassegna di stagioni, apprezziamo il coraggio di affrontare a viso aperto la realtà, rifuggendo dalle più comode illusioni; e solo in quest’ottica, di certezza oggettiva e non di illusorietà, leggiamo quel fiore selvatico che, senza alcun perché, torna a nascere spontaneo sulle tombe dimenticate. Un dirompente inno alla vita, con un timido sorriso amaro verso quel “Bonsai”, ancora convinto di essere l’unico albero della terra, che rischia di essere ogni uomo, se non riesce a riconoscere come tracce d’eterno la Poesia e l’Amore e, di conseguenza, a sceglierle, anche e soprattutto quando “ti spettinano”.

GLI EQUILIBRISMI DELLA RICERCA “…NEL VENTO, / DELL’ANGOLO PERFETTO”


(Zingonia Zingone, “L’EQUILIBRISTA DELL’OBLIO”
traduzione dell’autrice e di Pietro Federico)
Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli

“L’EQUILIBRISTA DELL’OBLIO” è una pubblicazione bilingue del 2011, della Raffaelli Editore di Rimini. E’ una sorta di “dialettica bipolare” quella che lascia scaturire la poesia di Zingonia Zingone, autrice e animatrice culturale cresciuta tra Italia e Costa Rica, Dire senza nascondere, senza celarsi dietro eleganti e altezzose maschere di parole difficili o desuete, evidenziando la profonda colloquialità di Ernesto Cardenal o la conoscenza impura e deflagrante di Pablo Neruda. Nella preziosa prefazione di Alicia Partnoy si rimanda alla riflessione lucida e personalissima di Claribel Alegría. Gitana per il mondo, affranta dal dolore degli oppressi, è capace di ricreare il mito intrecciando in maniera semplice e naturalissima il quotidiano e l’eterno; una corda tesa sulla quale camminare con prezioso equilibrismo, non rassegnandosi mai a precipitare nel burrone dell’oblio. La raccolta si apre con una citazione apocalittica (Ap 12,1-2), in un riferimento sacro al “femminile” più alto, seguita immediatamente da un’altra di Paul Beauchamp: “…La letteratura apocalittica nasce / per aiutare a sopportare l’insopportabile…”. Con queste chiavi di
lettura ci addentriamo nel viaggio poetico per incontrare subito un piede nudo “…dalle dita perfette / nella sua zucca, lontano nell’alba”, sospeso in una dimensione quasi onirica, tra futuro e ricordi. La dimensione ha sempre i contorni del sogno e spesso risulta fuorviante (“Pasar por el marco de la puerta / sin saber si has entrado / o estás saliendo”); anche quando, in fondo al corridoio, appare il corpo misterioso di un uomo, camminatore immobile, sul suo tapis roulant: “es un cuerpo que camina / sobre una banda rotatoria / y tú, una fantasía, / poco más de lo que fuiste / más de lo que serías”. Si cerca l’apice dell’equilibrio (“La bailarina de Degas”), ma la caduta è inattesa e sempre dietro l’angolo (“Pierde el contrapeso del olvido / y precipita / y se quiebra”). “Camina la cuerda en equilibrio…”, “Camina de punto a punto…”, “Vira la cuerda en el viento…”, “Sigue la cuerda el camino…” oltre che come incipit decisamente efficaci, suonano piuttosto come dichiarazioni d’intenti. E’ una poesia di contrasti: il più evidente resta quello tra tangibile e intangibile (“No me queda más / que el tacto de lo certero / el sofá tres almohadas / mientras el alma / como el humo de un puro / asciende lenta”; oppure “Veo las nubes pasar / bajo el avión // así pasan / tupidos / mis temores / mis heridas / hombro a hombro”). Si parte per cercare di sopportare il dolore, per trovare un Dio in cui credere, per altruismo, per colmare un vuoto, ma in Zingonia si parte sempre e solo, in maniera costruttiva, verso il buio. Oltre questa partenza, il tema dello specchio e della mutevolezza, all’interno di esso, del volto al passare del tempo (“Es incómodo / mirarse en el espejo”; “y escrutarse es / escarbar la tumba / del viejo rostro”). “La culpa es una cárcel / que se erige en torno al alma / ladrillo sobre ladrillo” e la fuga da essa non può essere il volo, che rischierebbe di trascinare con sé ogni soffocante mattone; sembrerebbe piuttosto la fede, magari verso la Vergine Santissima, inginocchiandosi “con la entrega / del desasosiego / con la esperanza / de quien ha tocado el fondo”. La vita è una magia incoerente, da vivere in prima persona, ascoltandosi, magari rompendo gli schemi “con la Fortaleza de los mártires” y “el desapego de los locos”. La duplicità emerge, a tratti, anche nel doppio registro, che porta ad accostare colte citazioni in Latino a ludici riferimenti a Buggs Bunny. La Fede è un percorso da affrontare, spogliandosi di tutto il superfluo per trovarsi in modo reale (“Hoy me robaron un anillo. / Hoy me quité un peso de encima”); un percorso intriso di sana quotidianità (“Una mínima iglesia de adobe y campana / sumergida en las colinas / de olivos y cielos tersos. / Te ofrezco, Señor, renunciar / a los excesos de esta vida / moderna”). Ma la costante è il rapporto dialettico tra finito e infinito (“Tan sólo mirame / y dime que un riachuelo / une tu lago con el mar”), dove è auspicabile la visionarietà dei bambini per rifuggire una deleteria e asfissiante razionalità (“Es asunto de niños / eso de tener visión. / No es asunto mío / eso de fingirme sabia”). E’ salda l’attenzione alle periferie cosmopolite popolate di reietti o di randagi, ma anche alla tradizione che può apparire come gabbia, cornice o letto di fiume da seguire. Ma il dualismo più alto è quello del nome, Zingonia, dove troviamo inoltre la scissione tra città, mai compiuta, rifugio degli emarginati e bersaglio del più becero fondamentalismo dei razzisti, e poetessa, progetto invece perfettamente portato a compimento e capace di trovare “nel vento / l’angolo perfetto”: “Me llamo Zingonia / como el nuevo Bronx / no uso seudónimo”. La seconda sezione, “Nunca seremos hormigas”, si apre nel segno del biblico Qoeleth, con il già detto e pur sempre da ridire di turoldiana memoria. Ogni progetto sociale dell’uomo sembrerebbe destinato, inevitabilmente, a fallire (“Nunca seremos hormigas / cabizbaja muchedumbre / en elevación del bien común”), soprattutto per l’inesauribile cinismo dei potenti capace solo di alimentare l’odio dei fondamentalisti che “revientan las jaulas / en el nombre de Dios / porque ya no aguantan / al Emperador optimista // invadiendo el universo / $anguinariamente $onriente”. In un mondo fatto di spettatori vigliacchi ed inerti (“Nosostros seremos Creonte. Nosotros, los ciegos / habitantes del pueblo global / seguimos como Ismene / caminando cobardemente por la historia / refugiados en la red, ojos agachados / como si todo y nada estuviera
aconteciendo”). L’ultima sezione, “La ciudad invisible”, è una costante riflessione sulle nomadi profondità dell’anima (“Tiene algo de nómada / mi residencia fija”), dove non sembra esistere una pianta per orientarsi (“Mi errático deambular /…/ Teje / itinerarios antojadizos / por las sendas / de la esperanza y del olvido”), né tantomeno tracce possibili da seguire (“La arena cubre huellas / forma garabatos / en la playa / de tus vivencias”). Si affrontano ancora, in costante dialettica,  fisicità e spirito, polvere da sparo che cerca di uccidere l’aria del giorno; ma anche intimità e solitudine (“La luna se asoma / a la ventana / y quieta observa / los juegos del aire / una silueta en vilo / una mujer desarmada // los malabarismos de la soledad”). Si abbraccia in una toccante sinestesia questo costante intreccio di sfere sensoriali (“la melodía de tus ojos”). La sintesi perfetta, l’epilogo del viaggio, il presente e la parallela promessa di futuro è infine la Donna, dal cuore madre, dal cuore amante, dall’innata progettualità: “Una mujer lleva el corazón madre…”, Una mujer lleva el corazón amante…”, Una mujer escribe su mejor historia, / coloca su porvenir en el pico / de un ave migratoria / y busca en el viento / el ángulo perfecto”. Una donna, dal sapore fisico e sacro, di nome Zingonia. 

Giuliano Soria, "Alfredo Conde. I Miti della Terra Galega", Edizioni Nuova Cultura

Alfredo Conde (Allariz, Galizia, 1945) è uno dei più noti romanzieri galeghi nella millenaria cultura del nord-ovest della Spagna che possiede una vivace letteratura. In gioventù, è stato un marinaio e, successivamente, un politico. Narratore prolifico, ha pubblicato racconti, saggi, opere teatrali e importanti romanzi tra cui Breixo (Cátedra, 1981), Xa vai o Grifón no Vento (Galaxia, 1984, Alfaguara, 1987), Los otros días (Destino, 1991), Azul Cobalto (Edhasa, 2001), Memoria de soldado (Sotelo Blanco, 2002), Lukumí (Bruguera Editorial, 2006), Maria de las batallas (Galaxia, 2008) e Llovida del cielo (Edhasa, 2014). La fama di Alfredo Conde è legata al romanzo Xa vai o grifón no vento, vincitore dei premi Premio Blanco Amor (1984), Premio de la Crítica Literaria Española (1986), Premio Nacional de Literatura (1986) e Premio Grinzane Cavour (1990). In Italia, “Huesos de Santo” è stato tradotto con il titolo “Il Mistero del Santo sul Cammino di Santiago” da Giuliano Soria per l’editore Alberto Gaffi. “Il Grifone” è stato pubblicato da Editori Riuniti a cura di Giuseppe Tavani. Nel 2015, l’editore Sentieri Meridiani ha pubblicato “69 Poesie” a cura di Patricia Martelli Castaldi. 
In questo studio, Giuliano Soria affronta in un’analisi attenta i romanzi Breixo e El Griffón, sia da un punto di vista stilistico-strutturale che contenutistico-tematico, mettendo in risalto la galleguidad propria dell’autore, il disagio psicologico, l’erotismo e la sensualità che traspaiono nelle vicende relazionali dei personaggi.


Giuliano Soria, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2015


“L’ODORE DELLA POLVERE DA SPARO”


Oltre l’odore, nel grigio, una traccia di colore più acceso


di Davide Toffoli e Eleonora Mozziconi

L’odore della polvere da sparo” (Edizioni Spartaco, S. Maria Capua Vetere - CE 2015, collana Dissensi) è l’ultima fatica letteraria di Attilio Coco e si apre con una illuminante quanto preziosa citazione da “Utopia e disincanto” di Claudio Magris: “Il fiume della Storia trascina e sommerge le piccole storie individuali, l’onda dell’oblìo le cancella dalla memoria del mondo; scrivere significa anche camminare lungo il fiume, risalire la corrente, ripescare esistenze naufragate, ritrovare relitti impigliati alle rive e imbarcarli su una precaria Arca di Noè di carta”. Tuttavia, l’Arca predisposta dall’autore è, in questo caso, tutt’altro che precaria: ha difatti il raro pregio di regalare personaggi che restano indelebili nella nostra mente di lettori, anche dove potrebbero rischiare di apparire complessi ed intrisi di fortissima soggettività. Abbiamo a che fare con un intreccio delicatissimo di vite, di luoghi e di eventi, dove i singoli sembrano arrivare ad appartenersi, pur sfiorandosi soltanto. Siamo chiamati, assieme al narratore (a tessere le fila del racconto è infatti lo scrittore Pietro Mattei), a ricostruire la vita di Gianni Ceccante, affermato attore di teatro, rimettendo insieme le sue memorie e i suoi ricordi impressionistici legati agli incontri e agli eventi degli ultimi anni di Liceo a Potenza, accompagnandolo poi negli anni della svolta e dell’amore in una Capitale dalla bellezza mozzafiato, ma popolata di fantasmi e di sinistri spettri provenienti persino dal futuro, per terminare nella Torino della grande industria automobilistica e del boom economico a tutti i costi, dove comunque si riuscirà a respirare la possibilità di resistere ripartendo dall’anima più profonda e sincera dei singoli che torneranno ad incrociarsi nella quasi magica suggestione di un incontro, destinato ad eternarsi nella memoria. La forza ineluttabile del simbolo mi spinge a tirare in ballo quella foto del Grande Torino, stagione ’46-’47, più volte presente nei luoghi del libro, quasi a sottolineare il coesistere di tragedia e di sogni di rinascita  e di vittoria nella storia non solo dei singoli, ma di un intero Paese, sul quale incombe minacciosa e spietata una terribile malattia: il fascismo, il fascismo più profondo, il fascismo dell’anima che si adegua e rinuncia a ribellarsi e a reclamare la propria originalità e il proprio spazio. Il titolo potrebbe indurci a pensare ad un giallo, ad un noir, ad un libro di genere… “L’odore della polvere da sparo” è molto di più: è un’indagine umanissima nella Storia del nostro Paese e non solo, raccontata attraverso le quasi invisibili esistenze dei singoli (giovani, professori, ragazzi, professionisti, genitori…), evocata a volte in alcune delle sue pagine più crude ed oscure (i fatti di Potenza del 29 aprile 1947, quando la polizia spara sulla folla scesa in piazza per manifestare contro la fame e la disperazione che dilaga nelle campagne, la strage del Primo Maggio a Portella della Ginestra, i fatti di Piazza dello Statuto del 1962 a Torino, il ricordo della Guerra Civile Spagnola, l’evocazione quasi profetica delle tragiche vicende che animeranno l’Argentina di lì a poco…). Sono pagine che costringono a riflettere sulla scissione drammatica tra democrazia reale e democrazia formale, pagine che hanno il respiro anarchico e la sagacia critica del Professor Ludovico Marotta e di tutte le persone che animano quel “covo libertario” costituito dalla Libreria Marchesi. Un’opera che si porta dentro il dramma profondo di un Paese e di un popolo colpiti a morte ogniqualvolta sembrerebbero stringersi e farsi coraggio per reclamare il loro spazio e per prendere realmente coscienza di sé. Un libro attraversato però anche da Poesia e Profezia, soprattutto nei personaggi femminili che lo popolano e assolutamente mai da comprimari: l’elegante saggezza e l’orgogliosa fierezza della signora Silvana Marchesi, con il suo foulard di seta viola, lucida nel saper leggere oltre l’apparenza di uno sfogo dettato dalla frenesia delle circostanze e di cogliere il senso profondo delle parole; la toccante consapevolezza della madre di Gianni, poetica protagonista nel lasciarsi affascinare dalla lettura di Edgar Lee Masters e della sua coraggiosa “Antologia di Spoon River”,  profetica nel sottolineare i gesti consueti e sospesi del tempo di suo figlio Gianni che si volta verso le finestre chiuse dei palazzi e che cerca di cogliere con l’immaginazione l’unicità delle esistenze che si nascondono dietro di esse; la visionaria ed inquietante veggenza di Alejandra, “la Maga”, quasi ossessionata da Buenos Aires e da quella sua aurea mistica di Amore e Morte, dove il diffondersi della consueta malattia e la tragedia sembrano destinate a divenire ancora una volta un’esperienza collettiva. Queste figure femminili si stagliano letteralmente con sembianze da Sibilla… Sembrano quasi un respiro costante della Grande Madre che, qualsiasi cosa accada, resta sempre profondamente legata all’incedere ciclico ed ineluttabile della Vita e della Morte. Ma sono il ricordo e la memoria a costituire il cardine vero del libro: il persistere, prima di tutto, di quell’odore di polvere da sparo e di sangue che rimarrà sempre nelle narici e che, per dirla con le parole dello sfogo che il professor Marotta rivolge a don Carmelo, “sarà lo stesso odore che sentiremo ogni volta che si cercherà di cambiarlo veramente questo Paese”; la consapevole memoria di una scelta possibile, quella ad esempio delle prime comunità cristiane “nelle quali ogni individuo si prendeva cura dell’altro. Niente proprietà, nessun bisogno di controllo superiore. E libera scelta di adesione a un modo di vivere. Nessuna imposizione”. Ricorrendo ancora una volta alla forza immaginifica e sintetica del simbolo, l’anima di questa interessantissima proposta letteraria di Attilio Coco risiede tutta nei capelli di Camillo “di un grigio particolare sul quale sembra resistere ancora, pervicace e a dispetto di tutti gli anni passati, una traccia di colore più acceso”. Gianni e il suo amico d’infanzia “Diavolorosso” torneranno a condividere, ancora una volta, il loro sguardo vitale e critico sul modo circostante, ben oltre la drammatica scia di sangue che loro malgrado li ha sempre accompagnati, e a reclamare con maturata saggezza il proprio inestinguibile slancio libertario. Una lettura che non è davvero il caso di lasciarsi sfuggire e che merita occhi attenti e animo libero perché, oltre l’odore persistente della polvere da sparo, lascia in ogni caso percepire, anche nel grigio, “una traccia di colore più acceso”.

DAVIDE TOFFOLI e ELEONORA MOZZICONI

Attilio Coco



un mínimo de racionalidad un máximo de esperanza



José de María Romero Barea
un mínimo de racionalidad un máximo de esperanza
Poesía (qué si no) II
Selección





V

Mudarse para volver

Irse junto a otras formas
vegetales o animales que uno
(extrañamente) reconoce
como propias

Un río
por ejemplo

Una corriente de agua irreal
aunque no menos que la que corre
a unos metros de donde
escribo (y que puedo ver desde
mi ventana)

Subrayo el río

Describo una forma
sinuosa que quiere decir río
pero más arcaica
más parecida a un dibujo prehistórico
o al trazo de un niño



Pregunta del autor para las lectoras/es del blog de Quaderni:

¿Son racionalidad y esperanza dos términos necesariamente opuestos?



José de María Romero Barea (Córdoba, 1972) es profesor, poeta, narrador, traductor y periodista cultural. Autor de Poesía (qué si no), cuya primera sección el corazón el hueco, consta de la trilogía Resurrecciones (Asociación Cultura y Progreso, 2011), (mil novecientos setenta y) Dos (Ediciones en Huida, 2011) y Talismán (Editorial Anantes, 2012), del que la plaquette ridículo ciego feliz en mi sitio(Q Ave Press, 2012) es un adelanto.
Ediciones Alfar editará en 2015 su poemario un mínimo de racionalidad un máximo de esperanza.

Iolanda Beccaris - La Littorina di Nosserio



di Ivan Fassio


Iolanda Beccaris esordisce a 89 anni con un romanzo autobiografico, che alterna memorie di una vita di lavoro a liriche descrizioni di Sant’Anna e di Nosserio, piccole borgate di Costigliole d’Asti, paese del Basso Monferrato. Appassionata da sempre di botanica ed erboristeria, l’autrice ha scoperto la letteratura da autodidatta, in età relativamente tarda. Proprio grazie al suo interesse per i fiori e le piante, Iolanda frequenta negli anni Novanta i Giardini Hanbury a Ventimiglia, dove si teneva ogni anno un premio letterario. Qui Iolanda conosce Francesco Biamonti, Nico Orengo, Gérard de Cortanze, Amos Segala e Sandro Grappiolo. Tutti questi letterati appaiono come personaggi nella seconda parte del romanzo, sullo sfondo dei paesaggi liguri e di una Parigi dipinta vivacemente con spirito naïf. La città, scoperta dopo i sessant’anni a causa della pressante curiosità per l’arte e la poesia, chiude idealmente un percorso esistenziale sofferto, segnato da rinunce e sacrifici.
Il testo ripercorre con nostalgia coinvolgente i ricordi dell’infanzia contadina, soffermandosi su alcune usanze tipiche degli anni Trenta e sottolineando la mancata dedizione durante la giovane età nei confronti delle nascenti passioni per la lettura e lo studio, a causa dei primi impegni lavorativi in campagna. Liala ed Emilio Salgari sono gli autori dell’adolescenza, consumati voracemente all’ombra di un gelso, portando la mucca al pascolo. Le leggende sulle “masche” affascinano e turbano la giovane Iolanda, durante le serate passate a “vijé”, a chiacchierare e a narrare storie nelle stalle dei vicini di casa. L’educazione cristiana, spontaneamente acquisita dalla “dottrina” appresa nell’amata Chiesa di Sant’Anna, trova ben presto una più forte ragion d’essere nell’appoggio ai partigiani “bianchi” cattolici, tra i quali spicca da subito la figura di Carlino, futuro marito dell’autrice.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono vissuti all’insegna del duro lavoro nel magazzino di alimentari e prodotti enotecnici a conduzione familiare. Gli eventi fondamentali di questi anni sono la grande gioia per la nascita dei figli, Oreste e Giuseppe, il crescente sentimento di insoddisfazione e di inquietudine nell’opprimente clima di provincia, a continuo contatto con clienti e rappresentanti, e, infine, la scomparsa di Carlino, da anni malato di cuore. La littorina che collega Castagnole Lanze a Isola d’Asti e che ferma a Nosserio è l’unica via di fuga in questi anni, la prima strada che i figli percorrono, spinti dagli stessi genitori, per proseguire gli studi e scoprire il mondo.
La narrazione subisce una svolta tematica e stilistica a partire dall'abbandono dell’attività negli anni Ottanta e da un altro avvenimento fondamentale: la patente. Da questo momento, iniziano i racconti dei viaggi, delle scorribande tra Piemonte e Liguria alla ricerca di santuari e di scenari pittoreschi, dell’emancipazione dalla routine della vita paesana. Il dettato si fa mano a mano più fluente, la scrittura più limpida, fino alla descrizione del recupero delle passioni originarie: gli studi, le letture, la raccolta delle proprie testimonianze. Durante la vecchiaia, vissuta per scelta a Torino nella casa che guarda sulla Mole, Iolanda, prima contadina e commerciante, poi viaggiatrice, diventa finalmente scrittrice e fissa sulla pagina le proprie esperienze.
In appendice, alcuni gustosi capitoli e un “dizionarietto” illustrano al lettore le principali attività dell’autrice e fanno luce su alcune peculiarità del territorio e della tradizione piemontese.
Libro per tutti, “La Littorina di Nosserio” è un capolavoro di spontaneità, scritto con disinvoltura e chiarezza: un affascinante spaccato novecentesco del Piemonte con le sue caratteristiche di laboriosità, serietà e riservatezza.


Iolanda Beccaris
La Littorina di Nosserio
Prefazione di Giulia Lanciani
Introduzione di Gérard de Cortanze
Postfazione di Ivan Fassio
Collana: LEPRINTIMES
ISBN:9788899389017
data di pubblicazione: giugno 2015
Euro: 16.00