(Rolando Kattan “ANIMALE NON IDENTIFICATO”
traduzione di Piera Mattei)
Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli
Animale non identificato è un libro del 2014, pubblicato dalla Gattomerlino nella sua collana SerieBlu, di un autore che riesce a sorprendere per la sua freschezza poetica e la sua riflessività. Rolando Kattan è nato a Tegucigalpa, in Honduras, nel 1979, ha radici messicane per parte di madre e ebreo-sefardite e palestinesi per parte di padre; questo elemento contribuisce in maniera importante ad una produzione di versi dal respiro ampio, scaturiti dalla lettura sistematica di autori come Montale, Pavese, Campana, Carducci… E ancora Pessoa, Vallejo o gli Haiku giapponesi. Il volumetto è arricchito dal testo a fronte, in traduzione di Piera Mattei, e da una interessantissima ed illuminante intervista all’autore, sempre realizzata dalla Mattei, dal titolo impegnativo e lungimirante “La poesia come utopia”.
Abbiamo evidentemente a che fare con una poesia che si serve di immagini nette e forti, che si disegnano nitide e incalzanti al fine di esprimere il pensiero portante dell’autore, che è un contagioso animatore culturale, impegnato nella diffusione popolare della poesia, come strumento di pacificazione e di sviluppo sociale. Dichiara Kattan, nell’intervista: “Noi del Colectivo abbiamo portato i libri e la lettura nei mercati, in villaggi sperduti, nelle carceri, negli ospedali”.
Animale non identificato comprende le poesie della sua terza raccolta in lingua spagnola, la prima in Italiano. È poesia che trasuda amore per tutto ciò che si contraddistingua come “ricerca”, che cita infatti autori dell’antichità, filosofi, scienziati: Michelangelo e Leonardo si accostano a Newton ed Einstein, in una sorta di collezionismo della ricerca, che come detto, non si limita alla scienza, tirando in ballo Gόngora, Quevedo, Cervantes e Shakespeare, oppure filosofi come Eraclito, Socrate e Platone. Scrive, con acume, la Mattei: “la definirei anche una poesia edenica e presocratica” che tende sempre all’eternità (“
un poema puede llegar a ser eterno / así parece”). Si nutre di citazioni e di riferimenti letterari, sempre piuttosto espliciti (“
Mi cabeza / también / pudo ser enterrada en Spoon River / pudo ser asfixiada / en algun viejo libro / pudo ser la cabeza de Yorik / pudo ser cabeza / o pudo / no ser nada”).
Kattan è poeta di evidente derivazione Montaliana o Eliotiana, dove l’emozione nasce spesso da una sorta di “correlativo oggettivo”: il Bonsai battuto dai venti che si crede l’unico albero sulla Terra, l’odore del pane che “se horneaba sobre el noble fuego de la leña”, la “bella scrittura” che accompagnava formalmente il dono di un ritratto fotografico del nonno. Ma l’elemento costantemente presente è l’acqua: perché è oltremodo vero quanto sostiene la Mattei: “in questa poesia filtra e gocciola acqua”; è un sentore di umidità che si infiltra tra le rocce, che fa nascere i fiori, che fa scendere il pianto… È vitalizzante come la parola. Suggestiva come nella splendida “Lluvia de escaleras”: “Una voz que gotea me dice: / no costruyas castillos en el aire”, e poco più in basso insiste “Una voz que gotea: / no costruyas castillos en el aire”, per un intermezzo in Inglese, di sapore Montaliano e citazione di Bernard Shaw (“if you have built castles in the air… / Now put the foundations under them”), che prelude alla chiusa che va perfettamente a bersaglio (“la gota persiste / pero afuera comienza / a caer una lluvia de escaleras”). È acqua che si fa voce di tutti i poeti defunti, dall’antico Omero al moderno Basho: una sorta di rassicurante liquido amniotico, un liquido capace di dare vita, come la poesia di un libro scritto in mandarino (“las palabras caen como una lluvia sobre sus manos / y sus manos abiertas se llenan de agua / como las manos que entran a los ríos / el hombre a mi lado bebe agua de un libro”).
È forse nel piglio ironico e deciso, però, che dobbiamo riconoscere l’elemento portante della poesia di Kattan, capace di un piccolo capolavoro con la sua “
Tratado sobre el cabello”, che suona come un vero “inno al caos”, poeticissimo (“
y los amantes que sobre todas las cosas se despeinan / cuando se besan y se aman / por eso les digo: / hay que desconfiar de un amor que no te despeina”) e spiazzante (“
en la historia reciente / Albert Einstein fue el más despeinado del siglo XX / y Adolfo Hitler por supuesto / el de los cabellos más ordenados”); oppure, come non citare “
Animal no identificado”, che dà il titolo alla raccolta e passa in rassegna tutti quegli animali, insoliti o strani, Pegasi o Centauri, che non trovarono spazio sull’Arca di Noè, per poi approdare all’animale, “non identificato” appunto, che pur avendo trovato posto sull’Arca, ancora oggi non riesce ad essere conosciuto a fondo: “
Pero de todos los animales que entraron / no reconozco al animal que recorre mi cuerpo”.
Abbiamo a che fare con una poesia sempre sintonizzata sul “divenire” (“aprende de las floras que nacen en las tumbas olvidadas”) e sul rifiuto assoluto dell’ “empasse” e della “fissità” (“no te entretengas más porque te volverás fotografía”). L’immagine ricorrente e vitalissima dei “fiori sulle tombe” è suggestiva e coraggiosa, perché non si tratta mai di fiori recisi, bensì di fiori spontanei che nascono sulle tombe dimenticate… Hanno quel sapore speciale, di libertà e di creatività, che Kattan attribuisce alla Poesia e all’Amore. Emblematica e toccante “Acto textual”: “ten a la mano siempre los libros poesía / lejos de los otros / aparte / en donde no los olvides / en donde preda verlos siempre // aunque no los leas o los hayas abandonado / ten los libros de poesía cerca de ti / al lado de tu cama / de cabecera de cama / o de cama / nunca más lejos / siempre en donde los sueños succede / en donde sierra sin miedo los ojos // cerca de donde haces el amor lo más cerca que preda / pues es allí en donde deben estar”.
Poesia e Amore, dunque, come energia creativa… E dimensione di poeta assume, in tale visione del mondo, anche quell’artigiano britannico, Peter Bellerby, che fabbrica ancora mappamondi a mano e al quale Kattan dedica versi preziosi, come originalissimo artista del “fare”. “Un poema (…) / puede llegar a ser más longevo que una piedra”, oppure “un poema puede llegar a ser eterno / así parece”. Poesia è soprattutto il potere fecondante della parola: “hago valer mi derecho de empezar un Edén”, recita Kattan, per poi chiudere il cerchio, nell’intimità del silenzio (“es posible el silencio // sentir el barro húmedo del cuerpo / y dejarse fecundar al fin por el poema”). Il discorso più attento è sul Tempo, dove si denuncia come regressione il millantato progresso, nel paradosso de “la ciudad” que “se ha vuelto vieja / haciéndose más nueva”; infatti “los años se miden / por los pisane que destruimos”, e dove c’era una scuola troviamo oggi un centro commerciale, nel cortile dove c’era un’acacia troviamo adesso un distributore automatico. L’uomo si illude “padrone del tempo”, nell’ironico simbolo di Kiribati che, dal 2011, è passato da primo a ultimo luogo del pianeta. “El tiempo corre y el arte lo detiene”, come solo il marmo bianco del David di Michelangelo riesce a fare. Curioso e spiazzante, Kattan, anche quando regala immagini e letture ironiche di un orologio fermo alle sei e trenta.
Profondo e malinconicamente reale, invece, nei versi di “Spoon River Anthology” (“los que van / tienen mucho que decimos / pero muertos / son memore confidentes”), dove nella dialettica vita-morte il dialogo si amplifica soltanto dopo l’estremo passaggio; oppure in “Nosotros muertos”, dove sembra di rivivere, per certi aspetti, alcuni versi del Sereni di “Diario d’Algeria” (“Non sanno di essere morti / i morti come noi”), quando attraversiamo con Kattan una quotidianità svuotata da ogni idea di vita: “los muertos desconocen / su condiciόn de nuerto / visitan officina / viajan en autobuses / y se sientan frente al televisor / en grupos de pequeños cementerios”. È tranciante nei suoi versi il poeta honduregno: “no se puede fingir que es octubre cuando es enero”. Proprio in questa rassegna di stagioni, apprezziamo il coraggio di affrontare a viso aperto la realtà, rifuggendo dalle più comode illusioni; e solo in quest’ottica, di certezza oggettiva e non di illusorietà, leggiamo quel fiore selvatico che, senza alcun perché, torna a nascere spontaneo sulle tombe dimenticate. Un dirompente inno alla vita, con un timido sorriso amaro verso quel “Bonsai”, ancora convinto di essere l’unico albero della terra, che rischia di essere ogni uomo, se non riesce a riconoscere come tracce d’eterno la Poesia e l’Amore e, di conseguenza, a sceglierle, anche e soprattutto quando “ti spettinano”.