OLTRE L’ABITUDINE ALLA BELLEZZA:
"Invisibili come Sassi" di Davide Toffoli
"Invisibili come Sassi" di Davide Toffoli
Giovanni Bonacci
Fra i tanti doni dell’età matura l’acquisizione di una prospettiva è forse il più pregiato. Giorno dopo giorno va infatti sbiadendo il senso di unicità che accompagna il nostro incontro con le cose; queste – anche quando sono nuove – sempre di meno appaiono del tutto sconosciute, rivelano piuttosto un dettaglio, anche minimo, che ci riporta ad un’esperienza passata: riconosciamo in questa risata il suono d’una risata altrui, nell’entusiasmo di questo incontro l’aroma d’un entusiasmi passati, nel tramonto che ci emoziona stasera il tramonto che ci emozionò anni fa. Ci scopriamo affetti da una malattia che mai avremmo paventato, la potemmo chiamare, con garbo, “abitudine alla bellezza”.
Se prima vibravamo per ogni scoperta, ora, inaspettatamente, ci troviamo a dover difendere la nostra capacità di suggestionarci, di farci cogliere alla sprovvista : dobbiamo allenarci all’essere impreparati per evitare che questa “abitudine” divenga pian piano “torpore”. Non è facile indicare uno strumento utile ad affrontare questa sfida, segnalo però quello che mi ha suggerito una bella lettura di qualche tempo fa: la presa di posizione. La lettura in questione, opera di Davide Toffoli, è una raccolta di poesie ed ha per titolo “Invisibili come Sassi”. Prendere posizione non significa, in questa sede, accostarsi ad un’opinione che ci rassicura più di altre o sostenere energicamente un’idea contro tutto e tutti. Significa semplicemente eleggere degli elementi che ci aiutino a interpretare le cose, individuare una lente che sentiamo essere valida e cercare di ri-leggere, attraverso di essa, ciò che ci circonda. La lente è, nel libro in questione, il rapporto con un luogo e, in seconda battuta, un mito che quel luogo ha abitato prima che noi vi entrassimo in contatto.
Molte delle composizioni più recenti – scelte tuttavia come apertura della raccolta – hanno per sfondo località poste a sud-est di Roma, in un arco che va dai parchi cittadini lungo la via Appia ai colli che la stessa Appia raggiunge: sono luoghi pieni di storia, segnati da ruderi o toponimi di origine romana. Ed è proprio questo sfondo a costituire la presa di posizione dell’autore. I versi non desiderano solo esprimere un’emozione privata, ma vogliono “sfidare” quest’emozione mettendola in contatto con la storia del posto per vedere se da questo incontro si apre una prospettiva inattesa, sorge, magari, una domanda.
Personalmente trovo che il fascino di queste poesie risieda nella coscienza della propria distrazione, in una lotta contro l’abitudine del pensiero che ha per nostro primo alleato il luogo in sé ed una forte volontà di scoprirlo. A volte ci si accorge d’essere stati sconfitti (dormivamo mentre qualcosa di meraviglioso accadeva), a volte i nostri occhi sono rimasti bene aperti e la suggestione d’un’immagine ha risvegliato la nostra coscienza. L’esito di questa battaglia è sovente contenuto nei versi finali. Leggiamo a tal proposito le strofe conclusive di due poesie della prima sezione “Nel lago” e “All’ombra del sambuco”: “(…) cresce ancora / Oreste al limitare / del bosco / mentre osservi, distratto, altri giorni, / ed il tuo amore / si specchia nel lago (…)”; “(…)Sotto un limaccioso azzurro notte, / sembri quasi intravedere / le navi-palazzo in fiamme, / mentre un ragazzo steso / all’ombra del sambuco / ti ricorda / quanto lesto / corra il sole d’inverno (…)”.
In entrambe le composizioni, specchio di atteggiamenti antitetici, l’appiglio che rimane saldo è la presenza fisica del posto, la coscienza del fondale e della sua concretezza: il bosco, il lago, il sambuco, l’azzurro opaco della sera. Pietre miliari rispetto alle quali orientarsi.
In tutta onestà bisogna però dire che questa devozione ad un luogo preciso (direi quasi ad un dettaglio geografico) non è nuova nella ‘autore e, se caratterizza in maniera più costante le ultime composizioni, è riscontrabile anche in quelle di qualche anno prima. Il luogo va nominato perché è lì che la suggestione ci ha sorpreso e tornandoci non dovremo solo riconoscere case e palazzi, ma anche il pensiero che quelle case e quei palazzi ci hanno suggerito: “Vagliagli, sei anche questo.” (“Primavera ‘96”); (…) restare vasi comunicanti appena, o stanze comuni in piena Siena ?(…) (“Ombre senesi”).
Altro nodo da segnalare (o lente attraverso la quale vedere) è l’intermittente identificazione fra l’uomo e l’elemento naturale. In questo senso la dinamica è duplice perché da un lato – sotto il punto di vista tecnico – ci si avvale dello strumento metaforico, ma dall’altro – sotto il punto di vista contenutistico – questa metafora appare svuotata dall’incompiutezza dell’identificazione, meta sempre sperata e quasi mai raggiunta. Anche qui possiamo operare un parallelismo tra due componimenti che esemplificano due esiti contrapposti. Ci soffermiamo nuovamente sulle strofe finali; stavolta sono quelle di “Tarassaco” ed “Ombre sacre”: “(…) succhiamo la radice / gustandone a fondo, / prezioso velo, / quel raro e ruvido sapore amaro… // Radi cimeli andati, come ancore / aggrappate al suolo / le ali cambiano forma nel cielo (…)” ; “(…) Nella selva / valse la pena spingersi / per ritrovare il passo / (…) / (…) restiamo sempre irrisolti fantasmi… / commistioni di attimi… / Spasmi di timido inchiostro / sulle pagine bianche… / Ombre / in eterna indagine (…)”.
Si comincia allora a capire come uno dei principali temi di fondo sia l’oscillazione tra compiutezza e incompiutezza o, con minor precisione, ma maggior capacità iconica, tra buio e luce. Prima abbiamo avuto modo d’apprezzare questa oscillazione sotto il punto di vista psicologico, ora la questione è forse ancor più radicale, prettamente fisica.
Si comincia allora a capire come uno dei principali temi di fondo sia l’oscillazione tra compiutezza e incompiutezza o, con minor precisione, ma maggior capacità iconica, tra buio e luce. Prima abbiamo avuto modo d’apprezzare questa oscillazione sotto il punto di vista psicologico, ora la questione è forse ancor più radicale, prettamente fisica.
In “Tarassaco” l’avvenuta identificazione non è dichiarata, ma emerge dalla sparizione del “noi” che occupava la penultima strofa. Di quelle labbra che succhiavano una radice nel finale non si fa più menzione, rimane solo l’altra parte della pianta – l’”ala” - che alla persona sembra fare da specchio, quasi che guardandola mutare nell’aria osservasse pian piano mutare sé stessa. Del resto l’intero testo è un’alternanza di nuclei in cui l’oggetto osservato diviene soggetto della frase successiva, diluendo in sé l’osservatore. Diverso è l’approccio utilizzato in “Ombre Sacre”. L’evento mancato non emerge per allusione, ma per chiara asserzione testuale.
Ciò che interessa maggiormente è la modalità d’osservazione. Sarebbe sbagliato dire che le strofe ascrivibili ai momenti di “buio” siano la rappresentazione del brutto, laddove solo le parti di “luce” determinano un vero godimento estetico. Entrambe rappresentano un momento di profonda fascinazione per questa ricerca del contatto (con sé o con la natura ) e, per mezzo della prospettiva utilizzata, ci portano fuori da quella temuta “abitudine” di cui si parlava in precedenza.
“Invisibili come sassi” è, a parer mio, un diario di viaggio molto veritiero; riflette fedelmente un l’evoluzione d’un pensiero che tanto si nutre di riferimenti (Montale e Turoldo in primis), ma che è soprattutto specchio delle esperienze vissute e delle sfide che un’esperienza sempre propone.
Vi suggerisco per questo l’incontro con la lettera viva, sperando che anche veniate colti, tra un verso e l’altro, dal fascino livido della delusione e della scintilla, quasi immediata, della riscossa che sta per arrivare.