Silvia Audo Gianotti
Université de Grenoble
Université de Grenoble

All’età di nove anni la famiglia si stabilisce in una città di frontiera dove un quarto della popolazione parla tedesco, idioma degli antichi dominatori austriaci e dei soldati che in quel momento invadono l’Ungheria. Agota si avvicina alla lingua seconda senza alcun entusiasmo né interesse con la collera di una giovane a cui si sta sottraendo l’identità. Poco tempo dopo l’Armata Rossa, salita al potere, mette in atto un “vrai sabotage intellectuel” (Kristof) sulla popolazione, esigendo il russo nelle scuole malgrado i professori non siano motivati ad insegnarlo né gli allievi ad apprenderlo. L’ungherese rappresenta il fattore di coesione sociale del popolo, imporre una lingua altra implica una trasformazione delle abitudini e del suo carattere sociolinguistico.

Con la morte di Stalin e i primi segni del disgelo, nell’ottobre 1956 ha inizio una rivolta nelle vie di Budapest immediatamente repressa dalle truppe sovietiche. Numerosi ungheresi perdono la vita, altri, tra cui la Kristof, per non sottostare alla legge dell’occupante si rifugiano in Occidente. Un popolo senza futuro abbandona il paese dove ha vissuto troppo tempo confinato per scoprire il mondo occidentale e la libertà abolita dalla dittatura. Nel novembre di quello stesso anno con il marito e la loro neonata di quattro mesi attraversano la frontiera tra l’Ungheria e l’Austria fino a raggiungere la Svizzera. A vent’anni questo viaggio prende la forma di un’avventura come narrano i gemelli de Le Grand cahier (1986). Per l’autrice l’apprendimento del francese diventa la risposta ad un passato doloroso e la sfida alla sua libertà personale nonostante questo significhi ricreare la propria identità sottomettendola al sapere e alla lingua altrui. L’apertura sull’altro universo linguistico oltre a produrre una tensione tra identità reale e fittizia, scelta e imposta, mette in causa quello che va detto e taciuto nella creazione artistica privandola della spontaneità e dell’automatismo che le sono propri. Nei testi estraneità e ibridazione linguistica riflettono la sua condizione di espatriata. La semplicità di vocabolario e sintassi sono utili espedienti per evitare la soggettività e l’espressione dei sentimenti. Tutti gli artifici letterari vengono banditi come se di fronte alle sofferenze vissute solo il denudamento scritturale e il rifiuto di qualsiasi ridondanza stilistica fossero i più adeguati a riprodurre degli argomenti drammatici e crudelmente reali.
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