TRA UNA FINESTRA CHIUSA E UNA APERTA, UNA FAME DI PAROLE VERSO IL SILENZIO


(Javier Vicedo Alós, “FINESTRE SU NESSUNA PARTE”
con traduzione di Antonio Bux)
Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli


Finestre su nessuna parte è una pubblicazione bilingue fresca e snella, del 2015, delle Edizioni Gattomerlino.
Javier Vicedo Alós (Castellón, 1985), giovane autore teatrale e poeta spagnolo, nelle sue liriche vigili e consapevoli, affacciate sul silenzio e sul vuoto sapienziali, tradotte con mestiere ed originalità da Antonio Bux (Foggia, 1982), ci regala una raccolta di indubbio spessore e di indiscutibile profondità emotiva. Ci accompagna verso il sottile piacere originario del silenzio, passando attraverso il lirismo quasi sacro della parola. Si muove tra una “finestra aperta”, quella della “memoria” di Jose Ángel Valente, e una “finestra chiusa”, quella del sogno e della potenzialità di Fernando Pessoa, animata da una coerenza di fondo ben riconoscibile già nella dedica: “A mis padres, por la oportunidad infinita”. Un viaggio ineluttabile (“El hambre de palabras que no acierto / derrumba y levanta mis días”) e impossibile (“Todos los signos apuntan al imposible”), che lascia trasparire l’ineffabilità della ricerca (“Que me calle la misma verdad que persigo”).

La prima sezione è aperta da “Homenaje vertical”, con dedica al poeta argentino Roberto Juarroz, e già vi si incontrano i suggestivi temi che caratterizzano la raccolta: la colpevolezza dell’uomo (“Echamos fuego al agua / y apagamos la transparencia. / Así quema el hombre la claridad del mundo”) e, soprattutto, la voce pesante del silenzio (“Se nace sin palabras”, oppure, “enmudece cualquier palabra”, e ancora, “Se aprende a callar con los años”). Il silenzio, come origine e punto d’arrivo, è una condizione armonica di equilibrio (“Y sin embargo, / aunque vivir sea enmudecer, / existe un placer original en el silencio / que justifica todos los silencios.”). La parola rischia di essere rottura, rumore funesto proprio sul punto di piombare sulla preda (“como si una rama / se partiera infinitamente / a punto de atropa al pajaro”). La parola è sempre già distanza. “Cantabile, ma non troppo”, un omaggio al giovane compositore José Pablo Polo, segue questa linea dell’indagine e dell’ascolto del silenzio come musica viva (“Yo soy música viva, / palpitación de sueño, / Un acorde imposible mirando al infinito.”) e indica possibili strategie (“Hay que ascultar el aire, / (…) / Pulsar la luz que espera / infinita en las teclas de la noche.”). Nella suggestiva “Fruto del silencio”, l’immagine quasi bipolare della sera: “popolano l’aria luci insicure / e ci dissangua il loro vacillare” ; “Pero aprendemos de la tarde / y abiertos a la duda somos calma”. E la subentrante pace di Luna ha un aspetto più che rassicurante (“Vibra alegre la cuerda del silencio”). La ricerca della parola che non violenti il silenzio è forse un passo impossibile (“Y callarse sería lo mas sábio”), perché bisogna essere umani o quantomeno sopportarlo perché “hasta en el torpe abismo de la voz / brotan algunos tallos de verdad. / Aunque sea la verdad simple / de ser y equivocarse.”.

La seconda sezione si apre con “Centro posible”, dove l’originalissima “Finestra” di Alós esce allo scoperto, come corpo, delicato confine tra istante e futuro (“Cuerpo, centro de todos los posibles”). Ecco che dare il nome alle cose significa vivere il proprio desiderio (“Solo el deseo da nombre a las cosas”). Un desiderio che, a tratti, non resiste a farsi corpo e a lasciarsi andare (“La ventana está abierta y nadie va a cerrarla. / Un viento nos conduce a todas partes.”). Il ritmo della carne è un vero salto verso il mondo, proprio sulle ali-guida del desiderio. Il dramma è dell’uomo che, lentamente, rinuncia a vivere, rassicurato da passi circolari di orbite esatte (“No quiete sobresaltos, sino órbitas exactas, / sentimientos atados a una inercia”), sceglie di farsi “rovina” oppure smette di sperare (“Yo soy mi propio reino devastado” “y vivir es cansarse de esperar”). Le mani dell’uomo sembrano troppo corte per raggiungere la vertigine di un sogno, le parole inadatte, le immagini sono di “stasi” senza progetto (“pero nada acontece mientras tanto, / únicamente unas palomas / picotean en la barranda / los pedazos de tedio de la tarde: / los restos de tu vida sin proyecto”). Il rischio che incombe è la solitudine (“Nunca estuvimos solos como ahora. // La compañía es el calor de una esperanza, / tierra de una promesa que el tiempo inunda”).

La quarta sezione getta lo sguardo subito oltre la finestra, nel dubbio, nel nulla, anche se “Mirando nadas se construye un hombre”; affronta il pensiero della perdita. Dare luce alle cose sembra quasi bruciarle, in uno scontro perso in partenza tra finitezza e infinitezza (“todo fue bordear la luz infinita”; “Tú has sido la luz en las horas, / la ardiente aguja en los objectos” (…) “Por fin en tu consumirte has sabido la llama. / A ti no será en vano la noche”). È l’uomo che si confronta con la sua ultima esperienza, quel suo ultimo gradino della parola che si fa pietra (“La eternidad es nuestra por un momento, / lo demás es el cansancio de las estatuas. // Un último escalón hace más alta la vida”). Ed è qui che la “notte” dell’uomo acquista una splendida consapevolezza, quasi adeguandosi al ritmo ineluttabile del “panta rei”, nella naturalissima e suggestiva “Marchando”, dedicata a Guyeda y Alejandro:

Florece noche, fruto necesario.
Todo es marchar.
¿Qué protesta en la luz
que cae con nuestro peso?
Cayendo se prendieron nuestros ojos.
Todo es marchar.
Aquí la estela que devoras, noche.
Florece, yo seré raíz del tiempo.

L’obiettivo, per Alós, è essere, per un solo istante, “porción silenciosa del mundo”, voce più lontana dalla voce. La quinta sezione è tutta, infine, nella sua “Coda abierta”, dove qualcuno ancora s’illude di mettere il proprio nome sul silenzio, come principio e come meta, come frutto inseguito ormai senza parole (“Pero donde el final hay un principio. / Se fueron todas las palabras”). Una firma come marchio e garanzia (“Alguien debe firmar este silencio”): non solo quella lucidissima di Javier Vicedo Alós, ma anche quella di un poeta-traduttore come Antonio Bux, che riesce, quasi mimetico, a sintonizzarsi sulle armonie e dis-armonie del testo, “tra-ducendo” senza tradire.

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