“LIBRI, LIBRI!” IL GRIDO DI SPERANZA DI UNA BIBLIOTECA


(Federico Garcia Lorca “LIBRI, LIBRI!”; discorso al paese di Fuente Vaqueros)

Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli

Libri, Libri! è una snella e interessantissima pubblicazione del 2014, curata e tradotta da Lucilio Santoni per le Edizioni Estemporanee (Collana Azulejos), impreziosito dalle simpatiche illustrazioni di Marina Rivera: il Discorso al paese di Fuente Vaqueros, che Federico García Lorca lesse a voce alta, davanti ai propri concittadini, in occasione dell’inaugurazione della biblioteca comunale del proprio paese natale, viene pubblicato già nel 1986 in Spagna. Proviene dall’Archivio García Lorca e risale ai primissimi giorni del settembre 1931: uno dei più importanti poeti e drammaturghi spagnoli del Novecento, morto fucilato dai Franchisti all’inizio della Guerra Civile a causa delle sue posizioni apertamente repubblicane, regala un testo appassionato e coinvolgente, che va ben oltre un semplice intervento di rappresentanza e che si pone, prima di tutto, come grandissima dichiarazione d’amore per un paese, per la terra andalusa, per le persone che la abitano. Proprio a questi il poeta riconosce un innato senso artistico, una propensione verso l’allegria, un gusto sottile per la vita. Fuente Vaqueros aspira all’arte, all’amore, alla bellezza e alla cultura, è abitata e vissuta da uomini ben lungi dall’essere schiavi della morte. L’orgoglio del poeta è quello di poter vivere da protagonista l’inaugurazione della prima biblioteca in tutta la provincia di Granada, soprattutto perché “è giusto che tutti gli uomini abbiano da mangiare, ma è altrettanto giusto che tutti gli uomini abbiano accesso al sapere. Che tutti possano godere i frutti dello spirito umano, poiché il contrario significa trasformarli in macchine a servizio dello stato, significa trasformarli in schiavi di una terribile organizzazione sociale”. 
I libri, nello sguardo lucido e puntuale di García Lorca, sono “Testi sacri” per eccellenza, cuore pulsante delle religioni, anima e spunto per le rivoluzioni, metronomi della storia. Scrive Lucilio Santoni nella sua Postfazione: “Ogni parola trasuda amore per la cultura e per i libri che ne costituiscono l’anima più profonda. Una fiducia totale verso un umanesimo dello spirito”. Il poeta regala un excursus colto e lungimirante, che chiama volta per volta in causa personaggi come Gutemberg, Lenin, Alberto Magno, i monaci medievali, il greco Esiodo, sempre per sottolineare come l’invenzione della stampa abbia avuto “effetti ben più rivoluzionari di altri grandi fatti accaduti nella stessa epoca, come l’invenzione della polvere da sparo e la scoperta dell’America”. Una rivoluzione lenta e inesorabile: “Gli antichi monasteri salvarono l’umanità. Tutta la cultura e il sapere si rifugiarono nei chiostri, dove alcuni uomini di estrema saggezza e semplicità, senza alcun fanatismo né intolleranza, custodirono e studiarono le grandi opere imprescindibili per l’umanità”. Contro i libri, nell’analisi del poeta, non valgono persecuzioni. Non possono nulla né gli eserciti, né l’oro, né tantomeno le fiamme: “Voi potete far sparire un’opera, ma non potete tagliare la testa a tutti coloro che se ne sono nutriti!”. I libri sono forse i più potenti operatori sociali, diffondono idee, le rendono accessibili a molti, si propongono come preziosa scintilla. Soprattutto chi non ha mezzi è importante che si nutra di libri, perché il sapere e la curiosità sono contagiosi. Se andiamo a mettere a confronto il Cantico spirituale di San Juan De La Cruz, i libri di Tolstoj, La città di Dio di Sant’Agostino, lo Zarathustra di Nietzsche, Il Capitale di Marx, non possiamo non condividere l’asserto di García Lorca, il quale sostiene che tutte queste opere concordano in un punto: l’amore per l’umanità e l’innalzamento dello spirito. Esse si confondono e si abbracciano in un ideale supremo. Nell’epoca del dissolvimento delle classi sociali, secondo il poeta, sono necessari spirito di sacrificio e abnegazione da parte di tutti, per sostenere l’unica vera salvezza dei popoli, rappresentata appunto dalla cultura. 
Il testo, a leggerlo bene, nelle sue 30 pagine scarse risulta intriso di poesia, sospeso quasi incoscientemente tra speranza ed utopia, ed è capace di regalare passaggi delicatissimi ed interamente proiettati verso il futuro: “Sono sicuro che Fuente Vaqueros, paese che ha sempre posseduto una vivace immaginazione e un’anima pura e allegra come l’acqua che sgorga dalla sua fonte, si gioverà molto di questa biblioteca, la quale porterà nella coscienza di tutti nuovi aneliti e gusto per la conoscenza”. La chiusa, infine, non è che l’ennesima dichiarazione d’amore rivolta ad una terra che ha, in maniera consapevole, scelto di investire su una direzione precisa, quella della crescita culturale e della conquista sociale e le parole di García Lorca, ancora una volta, suonano come il più bello degli auguri: “Che la biblioteca, in questo bellissimo paese dove ho avuto l’onore di nascere, serva a far regnare la pace, l’inquietudine spirituale e l’allegria. E non dimenticate il sottile proverbio scritto da un critico francese del diciannovesimo secolo: dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”. 
Qualcuno sostiene che chi vive con l’utopia nel cuore è un bambino che non vuole crescere, mentre invece bisogna diventare adulti, fare affari, credere fermamente in una crescita infinita in un pianeta finito e soprattutto, per dirla con le mirate parole del curatore, “riempire il vuoto dell’esistenza con lo sfavillìo della merce accumulata a dismisura”. Tra l’utopia della cultura e quella della merce e del mercato a noi piace credere fermamente nella prima, come l’intramontabile Federico García Lorca.


L'America Latina a Terra Madre - Salone del Gusto 2014



Nell’ambito dell’edizione 2014 del salone del Gusto e di Terra Madre, che si svolgerà a Torino dal 23 al 27 ottobre, i paesi Latino-Americano presenti in rassegna veicolano ideali di sviluppo eco-sostenibile e di valorizzazione del patrimonio culturale. A partire dalle caratteristiche della tradizione enogastronomica, il pubblico della manifestazione Terra Madre potrà imparare ad apprezzare gli aspetti comunitari legati al lavoro dell’uomo e alla salvaguardia della civiltà del mondo contadino. Gran parte dei Paesi di lingua e cultura latina e neo-latina, rappresentanti di quello che oggi definiamo “Sud del Mondo”, esprimono nelle loro culture le caratteristiche di conservazione, condivisione e trasmissione attraverso le generazioni di ideali legati ad un’alternativa sostenibile al progresso occidentale.
Le radici antropologiche, religiose e sociali sono alla base delle connotazioni paesaggistiche e di costume.
I partecipanti a Terra Madre potranno individuare percorsi e traiettorie attraverso i prodotti più tipici o più curiosi di questi territori: temi sui quali le comunità latinoamericane saranno in grado di apportare il loro fondamentale contributo – ad esempio, parlando di Ogm, di semi e di agricoltura familiare.
Le Americhe saranno protagoniste indiscusse nel campo del cacao: un laboratorio del Gusto vi porterà là dove tutto ebbe inizio e dove – in Ecuador, Perù e Trinidad e Tobago – sta esplodendo il fenomeno dei produttori locali di cioccolato. La grande ricchezza dei cacao latino americani potrà essere sperimentata anche andando a conoscere i produttori dei Presìdi o assaggiando la cioccolata calda che Guido Gobino realizzerà a partire dal Presidio messicano del cacao della Chontalpa.
Altra coltura tipica di questi paesi è il caffè, cui sarà dedicato un laboratorio che metterà a confronto le produzioni delle regioni montuose del Centroamerica con le pregiate robuste dei Presìdi africani. Ma di chicchi di caffè sarà disseminato tutto l’evento con incontri e un’area apposita nello stand della Fondazione Slow Food per la Biodiversità dove si potranno apprezzare i caffè dei diversi Presìdi.
L’America Latina sa esprimersi alla grande anche sul fronte delle bevande alcoliche. Ecco allora un laboratorio dedicato alla cachaça brasiliana e altri due laboratori, rispettivamente sul mezcal  e sulla tequila messicani. Per non parlare dei mieli, che dal Messico, dal Brasile e dall’Argentina ci racconteranno delle varietà floreali presenti in questo sterminato continente e delle razze di api native senza pungiglione.
Un laboratorio interessante ci introdurrà alla scoperta di cibi che per qualcuno possono rappresentare un’assoluta novità, ovvero gli insetti, ma che nei deserti del Messico centrale, così come altrove nel mondo, sono invece alimenti tradizionali con le loro proprie ricette e tecniche di cottura.
L’elenco potrebbe andare avanti a lungo, e soffermarsi sulle diverse varietà di peperoncino, sulle birre argentine e brasiliane realizzate coi prodotti dell’Arca del Gusto dal Gran Chaco e dalla Mata Atlantica, sulla panela organica dalla Colombia, sulle alghe cilene che saranno impiegate nella cucina di Terra Madre, sui nuovi Presìdi, come il primo colombiano, dedicato a un granchio nero che periodicamente invade le strade dell’isola di Providencia e che riveste un notevole interesse gastronomico…
Avremo le guide giuste per scoprirla, tutta questa biodiversità. Oltre ai produttori delle comunità e dei Presìdi saranno protagonisti coloro che più di tutti hanno contribuito al rilancio della gastronomia latinoamericana: cuochi come Regina TchellyAndres UgazMuñoz Zurita e altri ancora, provenienti dai paesi ospiti nello spazio della cucina di Terra Madre ci faranno sperimentare le loro specialità.

 
Davide Agnello
Redazione Quaderni Ibero Americani

Milton

Le donne, pettegole, parlano male:
Di mariti, suocere o nuore
Discutono esperte.
Qui, sul lungomare,
Di puro non c'è più nessuno - stai certo -
Tranne me, Milton - barboncino dinamico -
Che di signora al guinzaglio scodinzolo,
Piccolo e solo, di dar sfogo smanioso
Al mio cuore al fisiologico soffio.


Ivan Fassio

Domenico Cacopardo. Il Delitto dell'Immacolata

di Ivan Fassio


Il Delitto dell'Immacolata di Domenico Cacopardo è ambientato nelle terre di origine del padre dell'autore, tra Messina e Letojanni, nel 1977. Il racconto, narrato in prima persona del protagonista Filippo Solimèni fino ad un inaspettato colpo di scena finale in uno degli ultimi capitoli, si articola su uno sfondo di rappresentazione socio-culturale della Sicilia Anni Sessanta. Sono tanti i riferimenti alla tradizione familiare e gastronomica e alla dialettica tra emancipazione femminile e retaggi della cultura cattolica e dell'ipocrisia provinciale. Proprio in questo senso, l'ambientazione del romanzo è organizzata in modo sentito, con divertite allusioni alla realtà storica.
All'inizio dei fatti, il personaggio principale – Filippo, detto Lollo - è uno studente di giurisprudenza al secondo anno di Università. 
Lollo viene condotto in caserma all'alba del 4 marzo 1977 e interrogato sulla morte di Immacolata Pianuzza in Barbalonga Chirò, la vicina di casa assassinata nella tarda serata dell'8 dicembre 1976, festa dell'Immacolata Concezione. La donna era stata la sua prima amante. Ascoltata la deposizione del giovane, la dottoressa Adele Piraino Limongi, sostituto procuratore, lo arresta e lo rinchiude in carcere. Fabrizio Prisicianotto, penalista di Messina, viene incaricato della difesa e la delega in gran parte al giovane praticante Italo Agrò, suo sostituto e cugino dell'indagato. Qualche tempo dopo, l'imputato viene considerato estraneo al delitto e rilasciato. La sua situazione si complica a causa dell'omicidio di un'altra ragazza, possibile testimone del primo omicidio e seconda amante di Lollo. Anche questa volta, i Carabinieri arrestano il protagonista, ma sono costretti a rimetterlo in libertà per una testimonianza. Il romanzo si chiude con lo svelamento della reale colpa del protagonista, con le ragioni reali della scrittura del romanzo in un flashback rivelatore e con la scomoda presa di coscienza dell'inevitabile iterazione del delitto. Il detto Argentino riportato in calce sul finale “Herba mala nunca muere” conclude con una punta di amarezza una narrazione veloce, che coinvolge empaticamente il lettore nelle vicende del protagonista. Divagazioni in chiave erotica, scanzonate descrizioni di tic individuali e sociali arricchiscono con ironia il dettato scorrevole della scrittura di Domenico Cacopardo.

Le Poesie di Giacomo Romagnolo. VI Concorso Internazionale "Città di Aqui Terme"

di Ivan Fassio








Archicultura
Dove nasce la poesia? Quando è avvertita come necessaria, in giovane età, l’ispirazione prende le mosse da circostanze emotivamente toccanti. Certo, potremmo fantasticare suggestivamente su quanto il Romanticismo abbia attinto dalle radici infantili del poetare. È chiaro, tuttavia, che i primi esperimenti attecchiscono su un terreno scosso sentimentalmente. E allora sono le situazioni archetipiche a farci riflettere su sensazioni e pensieri: una giornata di pioggia, lo stelo inclinato di un fiore, il misterioso viaggio in lande sconosciute, lo scorrere lento di un fiume…

Proprio attraverso la trattazione di queste tematiche, Giacomo Romagnolo, studente tredicenne, è stato il vincitore selezionato al VI concorso Internazionale di Poesia “Città di Acqui Terme". La natura si riflette nei suoi versi, ricercata istintivamente e descritta semplicemente, come materia davvero condivisa. Il giovane autore è sicuro nella comunicazione delle proprie esperienze, per l’urgenza spiazzante della scoperta e per la prima consapevolezza di una percezione. È questa, in fondo, la base dell’estetica e della poesia: la primordiale, candida coscienza dei sensi…

















La Pioggia

di Giacomo Romagnolo

Sento la pioggia cadere
sul mio viso,
è un suono lento, dolce, ritmico.

Vedo la pioggia
cadere dal cielo,
è un'immagine delicata.

Mi perdo nel suono della pioggia mentre osservo
la sua cadenza.

Vorrei essere una goccia, posarmi su di un fiore,
cancellare tutto ciò che è triste
e creare un mondo migliore
un mondo di pioggia colorata.
















Il Lungo Viaggio di Nonno Carlo

di Giacomo Romagnolo

Te ne sei andato in un giorno d'estate,
un giorno in cui splendeva il sole,
un giorno in cui avevo gli occhi
incantati ad ammirare un luogo bellissimo.
Ho guardato il cielo e ti ho pensato,
ho guardato il fiume
che scorreva tranquillo
e gli ho affidato un pensiero,
il mio pensiero,
il mio saluto,
per accompagnarti
verso il tuo lungo viaggio.












Jordi Virallonga. Fa triste

Jordi Virallonga, Fa triste

di Ivan Fassio


“Le città esistono dovunque” scrive Jordi Virallonga in una poesia, “Grammatica”, che potremmo definire “pro-grammatica” all'interno della raccolta “Fa Triste”, recentemente pubblicata da Sentieri Meridiani Edizioni nella traduzione di Emilio Coco.
Le città, come prodotto conclusivo di un processo di presa di coscienza sociale, rappresentano il punto di partenza di una realtà fondata sullo scambio. Tale scambio, analizzato nelle strutture capitalistiche che regolano il mondo occidentale contemporaneo, non è equo. Da qui, la condizione “spaesata” dell'intellettuale, in bilico tra attaccamento e recupero della tradizione e critica ai valori della modernità.
Virallonga sceglie – analiticamente – di lavorare sulle strutture. Lo fa attingendo, problematicamente, dal dibattito novecentesco su urbanistica, paesaggio e architettura. Ogni poeta vive la geografia del mondo che lo circonda accompagnato da una scissione esistenziale: la distanza tra la razionalità dello studioso e l'incompatibilità spirituale con i meccanismi sociali.
Citando un altro titolo all'interno della raccolta, “Mimesi dell'Architetto”, potremmo parlare di divario tra progettualità dettata da esigenze economiche di praticità e convivenza e constatazione delle reali necessità esistenziali dell'uomo.
La casa, la città, l'insieme delle relazioni, ogni cosmo e ogni microcosmo conservano l'intelaiatura del rapporto di convenienza tra le parti, ma rivelano l'arbitrarietà delle consuetudini. Sono “fatti che si spiegano con un'equazione matematica” che, tuttavia, esprimono in superficie tutto il disagio della civiltà contemporanea. Che cosa fa, dunque, il poeta? Si dispera, ma di una disperazione cauta. Si rattrista in coscienza, saldo e consapevole di creare – post-modernisticamente - lamentazioni, critiche, invettive. Sa che dovrebbe “sperare che l'abitudine funzioni”. Praticando il corpo di quest'abitudine, la seziona anatomicamente, come se si trattasse di un'autopsia necessaria a chiarire le cause di n decesso. Così, in”Anatomia della Speranza”, il “dolore perverte qualcosa di questo piacere di civile uguaglianza”. Il desiderio rende l'uomo disposto a tutto, in una maniacale volontà di “potere”: possibile scavalcamento di ogni regola di convivenza con il prossimo...
“La morte non è la morte, è un morto”: in questa sala settaria, l'unico concetto che il chirurgo nn riesce a situare in una struttura di pensiero è la morte, che resta saldamente radicata nell'identità di ognuno. “L'uomo resiste nella polvere”, infatti.
“Fa sole e fa noia” e, di conseguenza, “presto verranno le vacanze”: misero e gretto sollievo, spartiacque tra impegni lavorativi e progettualità familiare e sentimentale. Fa triste pensarci, ma è così. Tutto il consueto gioco di ruolo, che il poeta, lo scrittore e il filosofo maledicono, perdendo le staffe di fronte all'inevitabile impossibilità d'azione...


Federico García Lorca. Sonetti dell’amore oscuro

di Ivan Fassio

Passigli Editori continua la sua proposta, in nuove traduzioni, delle opere di Federico García Lorca. Dopo la fortunata antologia delle Poesie d’amore, giunta già alla quinta edizione, non poteva mancare il fondamentale  poetico rappresentato dai Sonetti dell’amore oscuro.
Scritti tra il 1935 e il 1936, anno in cui il poeta fu assassinato, questi testi sono rimasti inediti, anche a causa della loro tematica omosessuale, fino al 1983, quando furono pubblicati clandestinamente. L’oscurità a cui rimanda il titolo, così facilmente assimilabile all’amore diverso, rimanda in realtà a una sofferenza affettiva che García Lorca interpreta in modo mirabile attraverso un linguaggio ardito e imprevedibile. Agli undici sonetti dell’amore oscuro si uniscono in questa edizione anche i restanti dodici sonetti che Lorca ha scritto nell’arco della sua vita, inseriti al termine del libro nella sezione Otros sonetos.
Valerio Nardoni, traduttore e curatore del volume, fa riferimento all’esaustiva semantizzazione del termine “oscuro” operata da Oreste Macrì - a cui la pubblicazione è idealmente dedicata nell’anno del centenario della nascita. L’ispanista, nel saggio “Origini e Continuità dell’Amor Oscuro” (Sud-Puglia, n.2, giugno 1988), ripercorreva le ascendenze ritmiche e lessicali dei sonetti, in modo da giungere ad una definizione dell’effettivo carico simbolico-esistenziale dell’opera. Federico García Lorca attinge in profondità alla tradizione lirica del suo paese: dal sonetto in alessandrini, alla maniera modernista di Rubén Darío, passando dalla purificazione linguistica dei Sonetos espirituales di Juan Ramon Jiménez e risalendo alla fonte cinquecentesca della Noche oscura di San Juan de la Cruz. Il poeta cita esplicitamente il fondatore dei Carmelitani Scalzi nel sonetto La mujer lejana (“Mi cuerpo es como un ánfora hecha de noche oscura”) e nel Soneto de la carta (“Llena, pues, de palabras mi locura / o déjame vivir en mi serena / noche del alma para siempre oscura”). In questo senso, lo stesso Valerio Nardoni definisce il concetto di oscurità come la realtà che sta nel fondo della “nostra foresta inestricabile” (Mario Luzi), in cui nessuna ragione possa addentrarsi per sollevare l’individuo dal tormento.

Federico García Lorca
Sonetti dell’amore oscuro
Poesia
traduzione di Valerio Nardoni
Anno :2013
Pagine :64
Prezzo :9,00€
ISBN :9788836814046
http://www.passiglieditori.it/

Oltre l'abitudine alla bellezza

OLTRE L’ABITUDINE ALLA BELLEZZA:
"Invisibili come Sassi" di Davide Toffoli

Giovanni Bonacci

Fra i tanti doni dell’età matura l’acquisizione di una prospettiva è forse il più pregiato. Giorno dopo giorno va infatti sbiadendo il senso di unicità che accompagna il nostro incontro con le cose; queste – anche quando sono nuove – sempre di meno appaiono del tutto sconosciute, rivelano piuttosto un dettaglio, anche minimo, che ci riporta ad un’esperienza passata: riconosciamo in questa risata il suono d’una risata altrui, nell’entusiasmo di questo incontro l’aroma d’un entusiasmi passati, nel tramonto che ci emoziona stasera il tramonto che ci emozionò anni fa. Ci scopriamo affetti da una malattia che mai avremmo paventato, la potemmo chiamare, con garbo, “abitudine alla bellezza”.

Se prima vibravamo per ogni scoperta, ora, inaspettatamente, ci troviamo a dover difendere la nostra capacità di suggestionarci, di farci cogliere alla sprovvista : dobbiamo allenarci all’essere impreparati per evitare che questa “abitudine” divenga pian piano “torpore”. Non è facile indicare uno strumento utile ad affrontare questa sfida, segnalo però quello che mi ha suggerito una bella lettura di qualche tempo fa: la presa di posizione. La lettura in questione, opera di Davide Toffoli, è una raccolta di poesie ed ha per titolo “Invisibili come Sassi”. Prendere posizione non significa, in questa sede, accostarsi ad un’opinione che ci rassicura più di altre o sostenere energicamente un’idea contro tutto e tutti. Significa semplicemente eleggere degli elementi che ci aiutino a interpretare le cose, individuare una lente che sentiamo essere valida e cercare di ri-leggere, attraverso di essa, ciò che ci circonda. La lente è, nel libro in questione, il rapporto con un luogo e, in seconda battuta, un mito che quel luogo ha abitato prima che noi vi entrassimo in contatto.

Molte delle composizioni più recenti – scelte tuttavia come apertura della raccolta – hanno per sfondo località poste a sud-est di Roma, in un arco che va dai parchi cittadini lungo la via Appia ai colli che la stessa Appia raggiunge: sono luoghi pieni di storia, segnati da ruderi o toponimi di origine romana. Ed è proprio questo sfondo a costituire la presa di posizione dell’autore. I versi non desiderano solo esprimere un’emozione privata, ma vogliono “sfidare” quest’emozione mettendola in contatto con la storia del posto per vedere se da questo incontro si apre una prospettiva inattesa, sorge, magari, una domanda.

Personalmente trovo che il fascino di queste poesie risieda nella coscienza della propria distrazione, in una lotta contro l’abitudine del pensiero che ha per nostro primo alleato il luogo in sé ed una forte volontà di scoprirlo. A volte ci si accorge d’essere stati sconfitti (dormivamo mentre qualcosa di meraviglioso accadeva), a volte i nostri occhi sono rimasti bene aperti e la suggestione d’un’immagine ha risvegliato la nostra coscienza. L’esito di questa battaglia è sovente contenuto nei versi finali. Leggiamo a tal proposito le strofe conclusive di due poesie della prima sezione “Nel lago” e “All’ombra del sambuco”: “(…) cresce ancora / Oreste al limitare / del bosco / mentre osservi, distratto, altri giorni, / ed il tuo amore / si specchia nel lago (…)”; “(…)Sotto un limaccioso azzurro notte, / sembri quasi intravedere / le navi-palazzo in fiamme, / mentre un ragazzo steso / all’ombra del sambuco / ti ricorda / quanto lesto / corra il sole d’inverno (…)”.


In entrambe le composizioni, specchio di atteggiamenti antitetici, l’appiglio che rimane saldo è la presenza fisica del posto, la coscienza del fondale e della sua concretezza: il bosco, il lago, il sambuco, l’azzurro opaco della sera. Pietre miliari rispetto alle quali orientarsi.

In tutta onestà bisogna però dire che questa devozione ad un luogo preciso (direi quasi ad un dettaglio geografico) non è nuova nella ‘autore e, se caratterizza in maniera più costante le ultime composizioni, è riscontrabile anche in quelle di qualche anno prima. Il luogo va nominato perché è lì che la suggestione ci ha sorpreso e tornandoci non dovremo solo riconoscere case e palazzi, ma anche il pensiero che quelle case e quei palazzi ci hanno suggerito: “Vagliagli, sei anche questo.” (“Primavera ‘96”); (…) restare vasi comunicanti appena, o stanze comuni in piena Siena ?(…) (“Ombre senesi”).

Altro nodo da segnalare (o lente attraverso la quale vedere) è l’intermittente identificazione fra l’uomo e l’elemento naturale. In questo senso la dinamica è duplice perché da un lato – sotto il punto di vista tecnico – ci si avvale dello strumento metaforico, ma dall’altro – sotto il punto di vista contenutistico – questa metafora appare svuotata dall’incompiutezza dell’identificazione, meta sempre sperata e quasi mai raggiunta. Anche qui possiamo operare un parallelismo tra due componimenti che esemplificano due esiti contrapposti. Ci soffermiamo nuovamente sulle strofe finali; stavolta sono quelle diTarassacoedOmbre sacre: “(…) succhiamo la radice / gustandone a fondo, / prezioso velo, / quel raro e ruvido sapore amaro… // Radi cimeli andati, come ancore / aggrappate al suolo / le ali cambiano forma nel cielo (…)” ; “(…) Nella selva / valse la pena spingersi / per ritrovare il passo / (…) / (…) restiamo sempre irrisolti fantasmi… / commistioni di attimi… / Spasmi di timido inchiostro / sulle pagine bianche… / Ombre / in eterna indagine (…)”.

Si comincia allora a capire come uno dei principali temi di fondo sia l’oscillazione tra compiutezza e incompiutezza o, con minor precisione, ma maggior capacità iconica, tra buio e luce. Prima abbiamo avuto modo d’apprezzare questa oscillazione sotto il punto di vista psicologico, ora la questione è forse ancor più radicale, prettamente fisica.

In Tarassaco l’avvenuta identificazione non è dichiarata, ma emerge dalla sparizione del “noi” che occupava la penultima strofa. Di quelle labbra che succhiavano una radice nel finale non si fa più menzione, rimane solo l’altra parte della pianta – l’”ala- che alla persona sembra fare da specchio, quasi che guardandola mutare nell’aria osservasse pian piano mutare sé stessa. Del resto l’intero testo è un’alternanza di nuclei in cui l’oggetto osservato diviene soggetto della frase successiva, diluendo in sé l’osservatore. Diverso è l’approccio utilizzato in Ombre Sacre”. L’evento mancato non emerge per allusione, ma per chiara asserzione testuale.

Ciò che interessa maggiormente è la modalità d’osservazione. Sarebbe sbagliato dire che le strofe ascrivibili ai momenti di “buio” siano la rappresentazione del brutto, laddove solo le parti di “luce” determinano un vero godimento estetico. Entrambe rappresentano un momento di profonda fascinazione per questa ricerca del contatto (con sé o con la natura ) e, per mezzo della prospettiva utilizzata, ci portano fuori da quella temuta “abitudine” di cui si parlava in precedenza.

Invisibili come sassi” è, a parer mio, un diario di viaggio molto veritiero; riflette fedelmente un l’evoluzione d’un pensiero che tanto si nutre di riferimenti (Montale e Turoldo in primis), ma che è soprattutto specchio delle esperienze vissute e delle sfide che un’esperienza sempre propone.

Vi suggerisco per questo l’incontro con la lettera viva, sperando che anche veniate colti, tra un verso e l’altro, dal fascino livido della delusione e della scintilla, quasi immediata, della riscossa che sta per arrivare.

Breve reseña crítica sobre creacionismo y ultraísmo en España

Breve reseña crítica sobre creacionismo y ultraísmo en España

Gonzalo Pernas Frías

En una sentencia bastante conocida y parafraseada, al menos en publicaciones como la que aloja este texto, Gerardo Diego aseguró haber inventado el Ultraísmo él solo, en Santander1. La otra cita canónica –Germán Gullón hace uso de ambas en un estudio imprescindible2 - es la de Juan Jacobo Bajarlía, quien toma al ultraísmo como al hijo del creacionismo huidobriano3. Sin embargo, más allá de las paternidades, la razón de ser del ultraísmo obedece al leitmotiv genérico de toda vanguardia: la desestabilización de usos lingüísticos y representacionales considerables como establecidos; la deconstrucción del constructo sin fin más allá de la propia acción desestabilizadora. El desgaste progresivo del novecentismo –justamente su inevitable normalización- lo haría permeable a los fluidos futuristas, cubistas, dadaístas y expresionistas que venían de Europa, como ejemplifica la consideración de Cansinos Assens como “president” español del dadaísmo, por parte de la revista Dadá4.

Aunque en la Historia de las literaturas de vanguardia de 1965, Guillermo de Torre reconoce el ultraísmo español como movimiento literario posterior a la estadía de Huidobro en Madrid5, el crítico y ultraísta juvenil considera a aquel una suerte de cubismo literario inspirado en Apollinaire, Cendrars y Reverdy. De Torre añade que el creacionismo –implicado en el desarrollo conceptual de una metapoética, más que en un rupturismo incondicional- es independiente del ultraísmo, bien que Juan Larrea y Gerardo Diego abrazasen la propuesta huidobriana desde las dogmática filas ultras. Calumniado a su vez por Reverdy, Huidobro va denostando cada vez más el ismo español desde una atalaya compartida con Assens, quien llega a identificar su Candelabro de los siete brazos (1914) con Las pagodas ocultas (1914). Por su parte, Gerardo Diego defiende la preminencia de la afirmación estética del creacionismo sobre el ultraísmo6.

Dejando de lado la polémica Reverdy-Huidobro sobre quién precedió a quién, y que es objeto de gran número de textos académicos que suelen incluir a Herrera y Reissig en cuitas de autoría y plagio, parece claro –como De Torre mostró- que la aportación del francés a su creacionismo culminó en la adaptación literaria de ciertos principios cubistas, más que en la consumación de aquellos en su propia obra. De hecho, Reverdy teorizó sobre la independencia de pintura y poesía como medios autónomos en Nord-Sud, mientras el chileno admitía todo un campo de posibilidades experimentales en el que trabajar7. De todas formas y como se sabe, ambos poetas confluyen en la búsqueda de una poesía antimimética, autorreferencial, en fuga de lo poético y al encuentro de lo plástico, y cuyo aspecto más exotérico –por así decir- es su irrefrenable sed de innovación. Esta punta de lanza, genérica de las huidas vanguardistas, fue la que penetró en el ámbito literario que Huidobro frecuentó a su paso por España. El apostolado del poeta, como lo llamaba Assens, cultivó el ultraísmo con semillas huidobrianas, aunque en terreno algo más árido que el París de Max Jacobs o Blaise Cendrars.

Si el término “ultra” fluye de la pluma de Assens8 –que parodiará el ismo en El movimiento V.P.- Guillermo de Torre concreta la fecha de aparición del manifiesto seminal ultraísta: fue en febrero de 1919, en los periódicos El Liberal, la Jornada y La Correspondencia de España9. Lejos de las articulaciones discursivas de las vanguardias dadaístas y futuristas, el ultraísmo abraza literalmente todo lo que sea nuevo, y tal pobreza conceptual explica un poco su escasa inflamabilidad; la tímida capacidad revulsiva que ha hecho del ultraísmo poco más que un periodo de estudio por parte de investigadores especializados. El excesivo cuidado con el que el ultraísmo pretendió cuestionar el mundo formal y conceptual del novecentismo, es sin duda uno de los principales motivos de su corto alcance y transitoriedad; algo a lo que debe sumarse –sería poco riguroso obviarlo- el status periférico de España en términos tanto geográficos como culturales.

Tras la visita del profeta de Santiago de Chile, los manifiestos ultraístas acomodaron en la península la propuesta de Marinetti10, por una parte, y la de los planteamientos dadaístas por otra, sin olvidar la influencia de otros ismos de las dos primeras décadas del siglo XX. Igualmente, es razonable otorgar al ultraísmo una vigencia de poco más de un lustro: el tiempo que transcurre entre los manifiestos de finales del veinte y el cierre de la madrileña revista Vltra en 1922, justo un año antes de la publicación de Hélices11. En relación a esta, Juan Bonilla dijo que “al juvenil De Torre le fascinaban las palabras esdrújulas y decía que los motores sonaban mejor que los endecasílabos. Caricaturizar su manera de decir está al alcance de cualquiera, pero no hay que perder de vista que estamos ante un momento de alborada en el que unos jóvenes, hartos de la rima modernista, de los cisnes y las princesas, tratan de acompasar su reloj al de Europa”12.

Las dificultades del acompasamiento se comprenden recordando cómo De Torre –a diferencia de corresponsales como Alberto Insúa o Ricardo Baeza- escribe sobre las soirée dadaístas a través de terceras personas. Significativamente, en la velada ultraísta del 30 de abril de 1921 en el Ateneo de Madrid, el autor de Hélices comentó “la falta absoluta de perspicacia y de lealtad captadora por parte del público –tan desemejante al que, en aquellos días, disfrutaban los dadás parisinos-”13. Falta de un público que reaccionaba adversamente a “la poesía, por llamarla de alguna manera, de Guillermo de Torre, el más recalcitrante, dogmático, desengarzado e invertebrado de todos los colaboradores [de la revista Vltra], pararrayos que sin duda atraía, quemando a los demás poetas, las tormentas de un público reacio a sus fiebres léxicas”14. No ha de extrañar el muy vanguardista colofón de la revista citada, con un número exclusivamente dedicado a la generosa publicidad incluida en números anteriores. Era 15 de marzo de 1922, y la acción instrumental de los ultras comenzaba a saborear las hieles de su obsolescencia.

Lo que Bonilla observa sobre el único libro poético de un autor más recordado por su dedicación a la historia de las vanguardias –y su fundación de la editorial Losada en Buenos Aires- se corresponde con lo escrito por Gullón en su Limitaciones del ultraísmo: “diría que la importancia del ultraísmo acaso resida en sus limitaciones, en la continua pugna por acoplar el ritmo del mundo moderno al ritmo lento interno del espíritu”15. Y es que Gullón se adscribe a la comprensión de la poesía ultraica como búsqueda –efectivamente- de un plus ultra, al menos lo suficiente como para no conformarse con el valor exclusivamente histórico-anecdótico que Torrente Ballester ve en los experimentos de Guillermo de Torre y compañía. En cualquier caso, el conato de sincronización que la presencia en España de artistas como los Delaunay, Picabia o Barradas –y la seminal de Huidobro, que venimos tratando- propició, afectó un cierto cuasiparoxismo que ayuda a comprender las críticas de D´Ors y el último Cansinos Assens.

La saña con la que Assens retrató a De Torre16 y el modo en que se mofó de la aventura ultraísta son, de algún modo, una denuncia de aquella como sucedáneo –incluso como corrupción- de un cubismo y creacionismo serios: los que el sevillano mostró a la élite confusa de poetas que frecuentaba el Café Colonial. Pero Assens no solo divulgó y tradujo a los cubistas franceses, también importunó a Huidobro al relacionarlo con Apollinaire, Jacobs y Reverdy. Si De Torre y correligionarios desvalijaron17 el legado del chileno –como se ha visto- sin saber muy bien qué y cómo hacer con él, Assens dio a entender que el creacionismo huidobriano era una especie de apéndice cubista, aunque siempre desde un respeto que el autor de La novela de un literato no profesó por ninguno de los jóvenes ultraístas.

Huidobro, sospechoso de egolatría irremediable, posible aunque improbable mistificador de fechas relativas a la producción de su obra, acusado incluso de ser un poeta mediocre… tiene sin embargo razones para ver el ultraísmo como una “dégradation ou mauvaise comprehénsion du creationisme”18, o más elocuente y menos duramente, como una “escuela fantasista”19. El afán “ultra” por ajustarse los relojes, reflejado en manifiestos que no exigieron mucho más que novedad ni asumieron la gravedad metafísica del creacionismo puro –entendido precisamente como búsqueda trascendental de creación pura-, hizo del ismo español un suceso fugaz que cruzaría el Atlántico, y que se mantendría en el plano de la subversión formal. El creacionismo –al menos el creacionismo huidobriano-, sin especular sobre las paternidades con las que empezábamos el texto, buscó efectivamente un hecho nuevo y fugitivo de lo poético. El ultraísmo, bien que no le faltaran razones, se preocupó por desmantelar aquel mundo de cisnes y princesas que se ha mentado, esperando –mientras tanto- la llegada de un contenido que quedó en el camino.

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Notas:
1)DELGADO, Fernando G. “Gerardo Diego y las puertas de los ochenta años”. Insula. Nº 354. 1976. Pág. 29.
2) GULLÓN, Germán. “Limitaciones del ultraísmo”. Revista Iberoamericana VOL XLV. Nº 106-107. Enero-junio. 1979. Págs. 335-342. Pág. 336.
3) BAJARLÍA, Juan Jacobo. El vanguardismo poético en América y España. Perrot. Buenos Aires, 1957. Pág. 18.
4) Dada Nº 6 (“Bulletin Dada”). París, 1920. Pág. 2.
5) ROBLES, Mireya. “La disputa sobre la paternidad del creacionismo”. Thesaurus XXVI. Nº1. 1971. Pág. 98.
6) VALCARCEL, Eva. “Vicente Huidobro y el creacionismo en España”. Huidobro. Homenaje 1893-1993. Eva Valcárcel (ed.). Universidade da Coruña. La Coruña, 1995. Págs. 11-49. Pág. 16.
7) CASTRO MORALES, Belén. “Los horizontes abiertos del cubismo: Vicente Huidobro y Pablo Picasso”. Anales de literatura chilena. Año 9. Nº 9, 2008. Págs. 149-167. Pág. 154.
8) En CANSINOS ASSENS, Rafael. “La nueva lírica: su irradiación”. La Correspondencia de España. Madrid, 1918. Pág. 4.
9) SARMIENTO GARCÍA, José Antonio. Las veladas ultraístas. Universidad de Castilla-La Mancha. Cuenca, 2013. Pág. 15.
10) MARINETTI, Filippo Tommaso. Manifesto tecnico della letteratura futurista (pliego). Direzione del Movimento Futurista, Milán, 1912.
11) DE TORRE, Guillermo. Hélices. Mundo Latino. Madrid, 1923; Hélices. Reedición facsímil a cargo de José María Barrera López, (preliminar de Miguel de Torre Borges). Centro Cultural de la Generación del 27. Málaga, 2000.
12) GARCÍA MARTÍN, José Luis. Poetas de novecientos. Entre el modernismo y la vanguardia [Antología]. Tomo II. De Guillermo de Torre a Ramón Gaya. Fundación Santander Central Hispano. Madrid, 2001. Pág.11.
13) OSUNA, Rafael. Revistas de la Vanguardia española. Renacimiento. Sevilla, 2005. Pág. 187.
14) Op. cit. Pág. 197.
15) GULLÓN, Germán. “Limitaciones del ultraísmo”. Revista Iberoamericana VOL XLV. Nº 106-107. Enero-junio. 1979. Págs. 335-342. Pág. 337.
16) Un buen ejemplo es la siguiente semblanza: “ingenuo, candoroso y al mismo tiempo de una audacia y un aplomo invulnerables a desaires y burlas. Pequeñito, vestido como un pollo pera, con el pelo cortado a rape, unos ojos inexpresivos, unas orejas como ventiladores y un hablar gangoso debido a la nariz torcida, y llevando bajo el brazo una carterita de colegial”. Citado en DIAZ DE REVENGA, Francisco Javier. “Cansinos Assens, Guillermo de Torre y los orígenes de la Vanguardia en España”. Monteagudo. 3ª época, Nº 10. 2005. Págs. 135-138. Pág. 138.
17) CASTRO MORALES, Belén. “Los horizontes abiertos del cubismo: Vicente Huidobro y Pablo Picasso”. Anales de literatura chilena. Año 9. Nº 9, 2008. Págs. 149-167. Pág. 155.
18) Citado en CASTRO MORALES, Belén. “Los horizontes abiertos del cubismo: Vicente Huidobro y Pablo Picasso”. Anales de literatura chilena. Año 9. Nº 9, 2008. Págs. 149-167. Pág. 157.
19) Op. cit. Id.


Vicente Cervera Salinas


HIJOS DEL DEVENIR

Descubren que no es cierta
la sentencia: “Sólo un camino conduce
al bien, e infinitos, al error”.
Equivocarse no es errar. Lo
formulan en la dicha que los asalta
cuando estampan una respuesta,
o cuando deben decidir entre el viaje
y la calma. Un punto en el mapa
se actualiza en cientos de planos y placeres
imprevistos, en miríadas de sorpresas,
en espantos incontables. Un día
los encontré: se asemejaban
a humaredas, que prometían
calor en el hogar remoto
y perseguido. Como ellas, se esfumaban
al tocar su entraña, que no era,
que no los habitaba… Imaginé
entonces que nada podría seducir
tan agriamente el corazón, y
di en ensayar sus movimientos
y sus bellas mutaciones. Os confieso
que fui fiel a esa senda serpentina,
a ese sendero siempre abierto hacia
otras nuevas direcciones. Os confío
una verdad que allí aprendí: no
se renuncia ni a la muerte al devenir.
Siempre el reposo se hace guía.
Siempre la guía se desprende
hacia otro fin. Siempre es un fin
que se proyecta al paradero que
dejamos sin vista. Oscuros
nombres sustituyen viejas fٖórmulas
de estricta idolatría. Ya no eres
más quien eras. Te prohijaron mares cálidos,
ciudades blasonadas, confusas
lenguas. No eres ya más
quien dijo: “De una vez”. Te
apadrinaron estaciones, bocas de
metro, tarjetas postales, o las persianas
de un hotel donde fugaste de tu ser.
No perfeccionas una línea
que trazaste única: como el sol,
como la noche, como el fuego
y como la marea, alcazas los átomos
de la intensidad. Luego te eclipsas.
Y procreas devenires sin parar.



FIGLI DEL DIVENIRE

Scoprono che non è vera
la sentenza: “Un sentiero solo conduce
al bene, e infiniti all’errore”.
Sbagliarsi non è errare.
Lo si vede nella gioia che li assale
quando danno forma alla risposta,
o devono decidere tra il viaggio
e la quiete. Un punto sulla mappa
rimanda a centinaia di piani e di piaceri
imprevisti, a miriadi di sorprese,
a innumerevoli spaventi. Un giorno
li ho visti: somigliavano
a nuvole di fumo, promesse di
calore in un lontano e bramato
focolare. Come queste, sfumavano
toccando loro l’anima, che non era,
che non trovava lì dimora… Ho immaginato
allora che nulla potesse sedurre
così amaramente il cuore, e
ho voluto provarne i movimenti
e le belle mutazioni. Vi confesso
che ero fedele a quella strada serpentina
a quel sentiero sempre aperto verso
altre nuove direzioni. Vi confido
una verità che lì ho imparato: anche
alla morte non rinuncio, in divenire.
Il riposo diviene sempre guida.
La guida tende sempre
ad altri fini. È sempre un fine
proiettato verso il luogo
non visitato. Rimpiazzano
gli oscuri nomi le vecchie formule
di una dura idolatria. Ormai non sei
colui che eri. Ti hanno accolto caldi mari,
città blasonate, confuse
lingue. Ormai non sei più colui
che aveva detto “Basta”. Ti
hanno accolto le stazioni, le entrate del
metrò, le cartoline o le persiane
di un hotel dove fuggivi dal tuo essere.
Non migliori più una linea
che hai tracciato unica: come il sole,
come la notte, come il fuoco
e come la marea, giungi agli atomi
dell’intensità. Poi ti eclissi.
E procrei incessante il divenire.


Vicente Cervera Salinas, de Figli del divenire, Iride, Rubettino, 2013, traducido por la prof. Marina Bianchi y el prof. Mario Francisco Benvenuto.
Muchas gracias al autor por enviarnos el poema.

Tra sogno, viaggio e passo da acrobata

TRA SOGNO, VIAGGIO E PASSO DA ACROBATA
(Carmen Leonor Ferro “ACROBATA”; traduzione di Alessio Brandolini)

Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli


Acróbata” è una elegante pubblicazione bilingue del 2011, per la Raffaelli Editore: un’antologia poetica che include testi estratti dal libro “El viaje” (2004) e delle successive raccolte inedite “Acróbata” e “Inestabilidad”, qui pubblicate per la prima volta sia in spagnolo che in italiano, nella traduzione dello scrittore romano Alessio Brandolini. L’autrice, Carmen Leonor Ferro, è nata a Caracas nel 1962, laureata in chimica all’Università Simón Bolivar; ha fondato la casa editrice Luna Nueva dell’Università Metropolitana di Caracas, specializzata in traduzioni di poesia. Ha tradotto in spagnolo Ungaretti, Penna e Antonia Pozzi. Vive in Italia dal 2005 ed attualmente è curatrice della collana di poesia ispanoamericana della casa editrice Raffaelli.


L’antologia si apre con la sezione “El viaje” dove, seppur in chiave evocativa, si fa spazio l’esperienza autobiografica dell’autrice, venezuelana ma discendente da immigrati europei fuggiti in America Latina in cerca di speranze e lontano dalla distruzione lasciata dalle guerre e dalla mostruosità dei totalitarismi. La parola è immaginazione, strumento inimitabile per muoversi in uno spazio alieno, inseguendo un “viaggio inverso”, interamente rivolto verso le origini, in un duplice itinerario: quello più reale e fisico del ritorno verso l’Italia dei nonni e quello più immaginario e chimerico verso il recupero del passato, muovendosi sempre con equilibrio da acrobata tra desiderio e memoria. L’eredità lasciata dai nonni è un libro, ma soprattutto un “mare”, che nel simbolo si trasforma neppure troppo lentamente in “oceano” da attraversare, percorrendo a ritroso il percorso degli avi: “Mis abuelos / me habían / dejado / como regalo / un libro / que describía / el mar de un pueblo / pequeño y pobre / del sur de Italia”. Un tema ricorrente è quello del “sogno”, spesso desiderio assoluto del viaggio (“Lo único / que me hacía / levantar / de la cama / y cruzar la frontera / al otro mundo / era el sueño / del viaje”), fuga da un presente percepito come distante e dalle mille maschere indossate nella quotidianità (“la fuga / ma hablaba / día a día / de mis muertes pequeñas”). Sempre il mare è simbolo costante di un futuro che chiama al viaggio necessario: si tenta di immaginare percorsi alternativi, si cerca di restare (“por momentos / uno cree / que el viaje / se acabó / y piensa // esta es la realidad / voy a vivir en ella / como un huésped / a ver si algún día / habla conmigo”); il luogo cui ritornare è una sorta di Eden da riconquistare, prima nel sogno, poi nella vita reale (“del paraiso / nos viene / el lado quieto / de las noches / esas horas / en que nos quedamos / dormidos // sin remordimientos”). Proprio dall’opposizione quasi dialettica tra sogno e realtà scaturiscono l’abbandonarsi alla fuga e il vero inizio del viaggio (“El viaje comienza / cuando estamo despiertos”; e ancora “Muchas veces / tuve la impresión / de esisti / en la huida // si algo me ataba / a mi deseo / de viaje / era desdibujar / lo que la vida / se empeñaba / en decirme // el mar / podía con todo // con mi sueño / de doncella / con mi visiones / de la tardes”). Ormai non c’è più scelta (“Todos los caminos / conducen / a mi casa”; e ancora “sueño / café y galletas / para el desayuno”). Chiudono la sezione: “El jardín”, nella quale il fantomatico paradiso terrestre tanto agognato sembra ormai raggiunto, tra ancestrali presenze (“Algo / que no podría llamarse / terreno / avanza // he aprendido / a aceptar esta fuerza // sin prisa // camino hacia la puerta”); e “La casa” , spazio fisico dell’incontro con la famiglia, simbolo di protezione e immagine paradigmatica dell’universo, dove passato e presente finalmente convivono (“Nos vemos más de cerca / uno el otro”; “el mar está dormido / por una calle baja / un puñado de gente // Día de San Gennaro / en Napoli // en toda partes / descubro / la cara de mi abuelo”).

La seconda sezione è “Inestabilidad”, interamente attraversata dal senso di precarietà trasmesso dal dualismo ineluttabile tra vita e morte (“La inestabilidad / convive / con la ilusión de tiempo”), dove ogni esistenza quotidianamente muore e si rinnova (“Nada es estable / bajo el sol”; perché “El universo / es una ilusión / que se prolonga en cada parpadeo // y que muere / cada istante / dentro de nosostros”). Sembra che la poetessa osservi con ammirazione gli aspetti ben visibili della natura (“Busco la solidez / de las hojas / que caen en el agua”), in un universo che sembra una sorta di “grande gioco” (“Parte del juego / de la fugacidad / es no saber / que el universo miente / a través del pasado / a través de su forma ilusoria / en nosotros”). In un mondo fatto di frammenti si afferma il ciclo inarrestabile di vita-morte-resurrezione (“Permitir el paso de las horas / como si el mundo / fuera más / que fragmentos”). La vita resta percepita come instabilità (“El olor / a desaparición / pre existe / a cada epifanía”; o ancora “el tiempo existe / para que algo perezca”). L’essere umano, nei suoi costanti tentativi di solidità, è come un insieme di particelle “mientras / el viento insiste / recio / contra la arena” (“El mundo / está hecho / de desapariciones / de burlas a la estabilidad // la solidez de una palabra / reposa / en el eco infinito / que se propaga hacia el pasado / hacia el tiempo / que ahora se extingue”); prova a nutrirsi di sogni e illusioni, scoprendosi però impaurita sintesi di “frammenti” (“Cada ilusión de casa / cada ideal de refugio / lo inestable / nos acompaña / y nos nombra / para luego mostrarnos / la nada / y los espero rotos”) o, più frequentemente, morto o addormentato (“en un instante / el paisaje del sueño / habrá cambiado / y entonces / apareceremos / muertos / - o dormidos – “). Un senso di eterna caduta si affaccia inesorabile (“Caes / sin ilusión de regresar”).
Si approda così all’ultima sezione “Acróbata”: nel dormiveglia, l’uomo torna ad interrogarsi sulle reali possibilità di incontrare il proprio passato (“aprendo a perdonar / mi desencuentro / al respirar / desnudez”; “buscaba a mis amigos / a los adolescentes acróbatas”). Sembra essere la parola poetica una possibile soluzione per “diseñar un alfabeto útil / al sueño”, mentre l’artista-acrobata persiste nella sua disperata resistenza grazie alle sue sibilline sensazioni (“nos toma la sensación / de venir de otro mundo / frágiles organismos / en sueños”). L’esistenza appare come una successione di enigmi da decifrare, lasciando respirare una sorta di presagio di morte al cospetto di un mondo che è destinato a durare (“Hay un camino atemporal / que no es transitable / hay una cita / a la que no asistiremos”), ma anche una suggestiva ipotesi di “fusione” nella “luce del sogno” (“Soñé / un cuerpo // frágil / como la lluvia // vestía / mi delgadez / de niña / me confundía / con la tela del aire // casi incorpórea // al ritmo / de una nada perfecta // subía / como una virgen // transparente / soluble // a la luz”; o ancora “Si tú aparecías / eras parte de todo / y allí no había distancia / entre yo / - solo, incólume, perfecto - / y ambos / - indiferenciados, poderosos, ciegos – “). La poesia di Carmen Leonor Ferro si conferma incentrata sulla costante necessità di reinventarsi propria di ogni essere umano, sempre pronto per forza di cose a “prendere il primo treno” verso una storia sempre nuova, con la sensazione poco appagante di percepirsi incompleto. In questo panorama spiazzante, spetta forse al “sogno della poesia”, seppur sfocato o deforme, ritagliarsi un ruolo privilegiato di consapevolezza o di speranza: “Hacer caso / a las deformidades del sueño / - con cariño - / me pareció saludable”.

«Las Sevillanas»


Fernando Villalón
(Sevilla, 1881 - Madrid, 1930)






Las Sevillanas

Trinos de cristal y plata.
Mejillas de bronce y rosa.
Negra noche en la abundosa
pelambre que al clavel ata.
Mirada abismal que mata.
Cuello de tórtola añil.
Fragancias de mes de abril
bajo la falda planchada.
Pies de aire. Faz robada
a una Venus de marfil.


 («El alma de las Canciones», Andalucía la Baja, 1926.)
En Poesías completas, ed. de Jacques Issorel, Madrid, Cátedra, 1998, p. 148.

Agradecemos al profesor Jacques Issorel el envío del poema.



Fernando Ortiz

Fernando Ortiz

Marina Bianchi
Università di Bergamo


El noto poeta sevillano Fernando Ortiz (8 de marzo 1947 – 28 de enero de 2014) falleció en su ciudad natal la noche del pasado martes 28 de enero. Hemos perdido un Maestro que cantaba con humor y fino sarcasmo al tiempo que se iba y le acercaba a su fatal destino, un gran conocedor de poesía, un
crítico de indudable calidad, un ensayista imprescindible para conocer la lírica española contemporánea y un excelente articulista, ganador del Premio Andalucía de periodismo en 1978, del Premio José María Pemán de artículos periodísticos en 1989 y del Premio Nacional de Poesía Vicente Núñez en 1991.

Pero, ante cualquier otra cosa, hemos perdido un gran Amigo, brillante, sincero y disponible, que dispensaba preciados consejos a jóvenes escritores y estudiosos de la literatura española, que nos regalaba charlas y bromas –siempre entremezcladas– sobre la poesía y la vida, enseñándonos a amar las dos con la misma intensidad.

La poesía era para él un deseo de autenticidad expresado mediante una métrica perfecta, una búsqueda para entender la realidad y una contemplación reflexiva en la que nunca olvidaba su espíritu andaluz, con la luz de esas tierras como símbolo del edén perdido que alumbraba la sombra del paso del tiempo en cada uno de sus versos, y con la actitud vitalista que no dejaba de acompañar su elegía. Su yo literario filtraba lo trascendente y metafísico desde lo existencialista, con la conciencia de pertenecer a la modernidad de la “estirpe de Bécquer”, pero sin perder la herencia recibida de la metáfora barroca de Góngora, de la actitud romántica del mismo Bécquer, de la búsqueda de la palabra exacta y esencial de Juan Ramón Jiménez, de la ironía sutil de la tradición popular del sur de España, de los mejores miembros de la Generación del 27, de la palabra familiar y directa de la Generación del 50 y de la literatura europea –sobre todo la inglesa.

Su primer poemario, Primera despedida, vio la luz en 1978, seguido por Personæ en 1981, Vieja amiga en 1984, Marzo y La ciudad y sus sombras en 1986, Recado de escribir en 1990, Un funcionario en 1991, El verano en 1992, Vieja amiga (1975-1993) –su poesía completa hasta 1993– en 1994, Moneditas en 1996, Posdata en 1999, Poetas en Sevilla. Antología poética de Fernando Ortiz en 2002, Versos y años. Poesia 1975-2003 en 2003, Galería de Espejos en 2007, la edición ampliada de Vieja amiga. Poesia (1975-2008) en 2008, Poesía de una vida. Antología poética 1978-2011 y Miradas al Último Espejo (Poesía 2007-2010) en 2011, Después del Siglo XX y Platica en 2012.

Sus últimos poemas se hallan recogidos en una antología argentina que Fernando no tuvo el tiempo de ver físicamente en libro, resultado de una intensa y amistosa colaboración entre él y yo: Pasos que se alejan. Antología poética 1978-2013 (Buenos Aires, Viajera Editorial, diciembre 2013). Además, en la Colección El Duende de los QIA, saldrá pronto el epistolario en verso entre Fernando Ortiz y su amigo José Manuel Velázquez, sevillano como él.

A todos nos quedan sus poemas y su legado literario; pero los amigos, además, tendremos para siempre su generosidad como ejemplo, la sagacidad de sus palabras vivas en el recuerdo y el eco de su sonrisa en el corazón.

Un suggestivo labirinto intriso di profumi

UN SUGGESTIVO LABIRINTO INTRISO DI PROFUMI
(Pilar Fernández “RETORNO A LA CIUDAD DE LOS ESPEJOS”)

Eleonora Mozziconi
Davide Toffoli


“Retorno a la ciudad de los espejos” è una silloge pubblicata nel 1992 nella Colección “Alcazaba” della Diputación Provincial de Badajoz; l’autrice è Pilar Fernández, nata a Badajoz nel 1959, che dal cuore dell’Estremadura affronta un vero e proprio viaggio in versi, muovendosi con animo attento e insaziabile da flâneur tra le strade di una città soltanto evocata. Si respira l’aroma soave della brezza di una Lisbona, che mai viene realmente nominata e che quindi conserva un fascino particolare, intriso di oggetti squisitamente reali e simbologie quasi esoteriche, che le permette di fondersi a tutte le città possibili in un non-luogo al tempo stesso esatto e indefinito.

È una poesia composta da scatti rapidi e fuggenti, da brevi frammenti assolutamente privi di rime e punteggiatura, ma intrisi di profondo e puro lirismo (“Surges bella y ociosa / sembrada de farolas / ciudad de tanta muerte / en tu verdes pupilas un esplendor de estatuas”). I versi sono sempre carichi di colori (“Lagos de piedra blanca detenida en el tiempo”; “Por un mar de olas rojas y dragones suicidas” (…) “al timón horizonte de luz rubio esmeralda”), spesso concentrati su giochi e su effetti di luce (“En la ciudad dormida / de dorados tranvías y palomas oscuras / buscábamos un cielo más puro de luciérnagas / un mar de carabelas azules y astrolabios”; “…es como una caricia de sal / un blanco lienzo / que la lluvia oscurece”), con atmosfere che prediligono situazioni di crepuscolo, di penombre o di passaggio (“La ciudad nos habita / con la caricia blanca y azul de sus almenas / laberinto en penumbra”; “Partieron una tarde con la luz del crepúscolo / hacia tierras dormidas”).

Le liriche della Fernández trasudano una profonda intimità del viaggio e del racconto, che avvolge emotivamente il lettore con una grande quantità di odori, spesso ben decifrabili, ma anche insinuanti, misteriosi ed evocativi (“Amarte es un delirio / de vagones a oscuras / de luna solitaria con aroma a jazmines / se me ofrece como una flor nocturna / sólo yo he conocido / su secreto perfume”; “Su bahía perfumada de limones y velas”; “Tienes un eco amargo de lentas carabelas / cataratas de pájaro de lluvia de perfume / en los negros arcones / todos los signos dicen de tus amaneceres / ciudad de los espejos”). La fragranza più presente è quella squisitamente estiva del gelsomino notturno, chiamato in causa con nomi affascinanti e sempre diversi ( “Dama de Noche”, “jazmines” o ”Galán de Noche”).

La poetessa si lascia sedurre da un’intrigante “fascinazione del confine”, preferendo atmosfere di nebbia o penombra, immagini quasi mai dirette, che vivono piuttosto nei rimandi di esse che derivano dagli ambienti circostanti e che parrebbero sottolineare l’irremovibile sacralità di ogni punto di vista, seppur conservando l’indiscutibile centralità dell’io. Il profondo senso di mistero, che caratterizza i suoi versi, si addensa soprattutto nelle linee di confine e nei luoghi di incontro, proponendo di volta in volta simboli diversi quali l’orizzonte, una riva bagnata dalle acque, una barca che smuove il mare calmo lasciando una scia di spuma come sottile traccia (“adivina si puedes la linea misteriosa / entre il cielo y el mar / dos paraísos iguales”; “Las olas no saben de amor / y te buscan / fragrantes y rubias ascende tus muslos / cuando indiferente paseas por la orilla / ajeno a su ritmo / de lentas caricias”).

Le sue liriche sono vere e proprie istantanee, scattate dall’occhio vigile del flâneur, che ritorna, affronta la città e si inoltra nei suoi meandri più oscuri ed intriganti (“Tú frente a los cavallo de piedra / y el estanque / bordado de nenúfares / en el ángulo izquierdo un cisne solitario / la técnica transforma en materia / el recuerdo”). Tra ricordi, sogni, desideri e memorie, lungo i binari dei tram, nella città senza nome, non mancano riferimenti intrisi di esotismo quasi sacralizzante (“Íbamos de la mano / por la ciudad sin nombre / entre leones de piedra blanca y enredaderas / evocando la rosa lejana de los vientos / el llanto en los pezones / de alguna diosa negra”).

Tuttavia, il vitalissimo viaggio delle liriche vede apparire ossimoriche presenze di morte che rimandano ad una sorta di “paradosso dell’amore” (“Tus palabras / me cubren de lenta muerte dulce / paisaje devorado por tiernos escorpiones / golondrina de sangre y harapientas estrellas / infierno donde oculta sus dardos / la locura”); la raccolta si chiude proprio sotto questo segno, all’apice del viaggio, con la lirica “Cénit” (“Como un lento cadáver / que caminara a ciegas / que dijese calabra vacías / y sintiera como la sangre ardiente / deserta sus arterias / tu ausencia”).

La “Città degli Specchi” di Pilar Fernández è un suggestivo labirinto in cui, da lettori, vale di certo la pena perdersi.


Luuanda de Luandino Vieira

Luuanda de Luandino Vieira – alicerce fundamental da construção da identidade angolana

Regina Célia Pereira da Silva
Università degli Studi l’Orientale di Napoli


Nos passados dias 18 e 19 de novembro de 2013, realizou-se na Università degli Studi di Napoli l’Orientale, um ciclo de conferências sobre o tema “Luuanda di Luandino Vieira cinquant’anni dopo”. A esta iniciativa participaram os escritores angolanos Ana Paula Tavares e Ondjaki (este recebeu recentemente o Prémio Saramago 2013 pelo seu livro Os transparentes).

O encontro realizado com estes dois escritores, fez-me lembrar as famosas tertúlias portuguesas que se desenrolavam ao sabor de um café ou de uma cerveja bebidos na Brasileira. De facto, o clima que se criou ente todos era informal e extremamente amigável o que proporcionou uma grande abertura e até confidência – é Ana Paula Tavares que o confirma, em primeira pessoa, quando declara que iria contar mais uma história acontecida em Luanda, autobiográfica evidentemente.

Tudo parte do famoso livro de Luandino Vieira Luuanda publicado em 1964 e escrito durante a sua estadia na prisão, para onde tinha sido arrastado pela polícia política, devido às suas ideias políticas. Acusado de ter ligações políticas com o Movimento Popular de Libertação de Angola (MPLA) foi preso em 1959 pela PIDE - Polícia Internacional de Defesa do Estado, no âmbito do que ficou conhecido como "processo dos 50". Em 1961 voltou a ser preso, tendo sido condenado a 14 anos de prisão e a rigorosas medidas de segurança. Em 1964 foi transferido para o campo de concentração do Tarrafal, em Cabo Verde, onde viveu oito anos, tendo sido libertado em 1972, em regime de residência vigiada.

O volume Luuanda reúne três narrativas que retratam a dura realidade que se vivia nos musseques angolanos durante o colonialismo. Assim, a preocupação fundamental do autor era aquela de ser o mais fiel possível à realidade. Para Ondjaki, este livro é constituído por uma trilogia - Vavó Xixi e seu neto Zeca Santos, Estória do ladrão e do papagaio e Estória da galinha e do ovo - que abrange a infância, a adolêscencia e a vida madura autor e, revela simultaneamente a dimensão crítica, cívica e literária do mesmo. A elaboração literária de Luuanda deixa entrever uma perspectiva utópica da Luuanda revela um homem guerrilheiro e contemporaneamente literário e que este não existe sem aquele. Constituí uma ponte entre o mundo interior e aquele exterior, no âmbito literário. Trata-se de um livro que se baseia na conexão reclusão-reflexão-reaprendizagem, isto é, na vida de prisioneiro que, apesar da sua condição, não deixa de pensar e reflectir.
realidade. Concebida num momento histórico revolucionário, esta obra simboliza a consolidação paulatina do processo de resistência popular que se opõe ao poder colonial, sugerindo caminhos para a transformação efectiva da sociedade angolana. Os autores angolanos, afirmam ainda que

Por outro lado, é de salientar qe a escrita literária de Luuanda, escolhida por Luandino Vieira, já não apresenta aquele portuguê de Coimbra ou de Lisboa, não só devido à introdução do quimbundo e devido à subversão das estuturas sintáticas e gramaticais, onde a oralidade africana e a forma de contar livre típica angolana se articulam com o discurso narrativo do autor mas fundamentalmente porque as representações do quotidiano que descreve – a fome, a miséria, falta de recursos materiais, etc – revelam a existência de uma Angola diferente daquela que o colonizador fotografava.

O escritor enquadra-se na geração da Cultura (II), surgida no final dos anos 50, para prolongar a acção do Movimento dos Novos Intelectuais de Angola (MNIA, 1948) e da Mensagem (1951-52), de que se destacaram, entre outros, António Cardoso, Arnaldo Santos e Henrique Abranches.

Afirma Ana Paula Tavares que as narrativas de Luandino Vieira dos anos 60-70 apresentam um fio lógico que as une e que se concretiza no nascimento da consciência de nacionalidade, daquela angolana. Tal conciência surge como um sentimento de pertença a um país que está surgindo e vem crescendo progressivamente.